L'avventura Informale, Pinacoteca Civica Savona
2007
Marco Filippa dialoga con Luca Pagani |
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E cosi’, tutti in giro per la città a captare i suoni, come Philip in Lisbon
Story di W,Wenders, ma senza nessuna apparente necessità “narrativa”. Che
significato ha per te lavorare sul soundscape ? Ho conosciuto persone che registrano veri e propri ‘diari acustici’ durante i loro viaggi…Noi cerchiamo sempre evadere, di immaginare qualcosa che non esiste ma che desideriamo. Chiudere gli occhi ed ascoltare permette di immaginare cose che non esistono. Anche quando si aprono gli occhi nello stesso ambiente dove abbiamo ascoltato suoni e rumori questa ‘visione’ continua. Il soundscape, dato che viene registrato senza che gli attori sonori lo sappiano e si comportino di conseguenza, è un’opera d’arte unica, è un’intervista sonora ad un luogo. Irripetibile in quel secondo. “Il dono dell’ubiquità”: io e Martino abbiamo registrato due diversi soundscapes negli stessi tre minuti a distanza di una decina di metri. Nella traccia che presento la mia registrazione si trova sul canale sinistro, quella di Martino sul canale destro. Sappiamo bene che, da almeno un secolo, il rumore ha piena cittadinanza nel nostro universo musicale. I confini tra suono e rumore, con l’elettronica e le esperienze stocastiche di Xenakis per fare un nome, sono labili. Esiste un margine, un confine: il silenzio. A questo proposito mi viene in mente una storia Zen: qual è il suono di una sola mano? Beh, il rumore usato in musica fa ancora sorridere quasi tutti. E’ maltrattato, povero rumore. Non si capisce perché l’arte visiva possa esprimere il brutto con il brutto, dire che questo in un’opera d’arte diventa bello perché espressivo, mentre in musica no. L’arte visiva, informale, l’art brut di Dubuffet, sono arte d’avanguardia, i compositori concreti sono ancora dei poveri pazzi e ghettizzati da cento anni (vedi Russolo e l’Intonarumori). Durante il nostro seminario in Pinacoteca è venuta molto fuori questa cosa del silenzio. Sappiamo che John Cage volle dimostrare che il silenzio non esisteva. Ma anche, con le sue tante versioni di 4’33”, che esistevano diversi tipi di silenzio. Questo ci riporta alla percezione interiore del suono, il mio silenzio è diverso dal tuo, oggi adesso, riporta ad un luogo, ad uno stato d’animo. Nel cinema infatti quando si vuole esprimere un silenzio ci sono piccoli rumori, questo per far intendere dove, quando e perché è stato scelto di inserire il silenzio. “Esporre” suoni in un museo è, sicuramente, qualcosa che valica altri confini. Qualcosa che incorpora e supera al contempo le installazioni sonore di Brian Eno, un processo creativo inverso in un certo senso… Giocando con le parole è un po’ come dire: guardare i suoni e ascoltare le immagini. Che significato ha per te, tutto questo ? Abbiamo letto durante il seminario un passaggio di Brian Eno dove ipotizzava l’utilizzo di suoni per creare percezioni di colori ed immagini. Questo sinceramente non mi interessa. Appartiene alla solita cosa per la quale l’artista esprime se stesso, le proprie emozioni, e presuppone un’artista/creatore/dio che è sensibile, preparato, quindi i critici che ci scrivono sopra e solo alla fine il pubblico che vede, ascolta, ovviamente annoiatissimo. C’è sempre, nella cultura e nell’arte occidentale, questa paura del tipo, l’arte la faccio io ed io ne sono creatore e detentore della sua verità, come un prete. L’opera d’arte, quindi, deve presupporre tecnica, rappresentare una cultura, e magari avere pure un significato nascosto che giustifichi la mia opera. Ovviamente questi presupposti, in realtà, non si trovano “dentro” l’opera, ma sono solo “esterni”; sui libri dei critici. Con la mappa sonora di Savona ho voluto esporre un prodotto che fosse registrato dai partecipanti. Dare una possibilità, questo. Non è un discorso facile. Mi interessano le azioni, che abbiano un significato il più possibile pratico. Voglio giocare ad immaginare un’altra città, con dentro le cose che mi piacciono. Non è uno scherzo. Quando ho riascoltato la traccia registrata da Massimo “Bowling” ho visto un incubo terribile, un non-luogo angosciante, dove l’elettricità annulla lo spazio. Lui mi ha detto che gli piacevano i suoni di quel luogo, l’atmosfera così bizzarra. Libertà. Quanto, del risultato finale, appartiene alla post-produzione e quanto invece conserva integro il materiale registrato ? Caro Marco, bella domanda. Vuoi fregarmi eh? Scherzo. Come per un film. Il microfono utilizzato come una telecamera, per cercare di capire cosa ci stanno dicendo un luogo, un oggetto, una situazione. Manca solo la parola. Ecco, mi sono accorto di questo, nei soundscapes di quest’opera manca la parola detta dall’uomo. Per fortuna…Ovviamente, nei soundscapes, come in un film, sei libero di fare i tuoi montaggi, accostare o distanziare le parti, anche se, lo giuro, non ho modificato niente delle registrazioni. In sintesi, qual è stato il tuo approccio a questa esperienza ? C’è bisogno, sempre, di qualcosa di nuovo. Per molto anni ho accusato questa città, e di certo non parlerò mai bene di chi la costruisce e di chi in grande parte vuole sia così. Ma ho capito che è inutile dire “piove, governo ladro”, bisogna continuamente creare situazioni, spazi fisici e mentali, azzardo una parola, “liberi”, dove non ci si senta soli. Io credo che sempre siamo in grado. |
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