Fuori luogo di
Antonella Marino
L'avevamo lasciata, qualche anno fa, intenta ad indagare dal di dentro
i confini di un corpo ormai in frantumi, ancorata ad una sensualità
della materia pittorica e della forma plastica, come garanzia minima
di un' identità già scissa ma da reinventare, anche in rapporto agli altri.
"Stare in mezzo alle cose", accarezzarne gli intervalli e le relazioni spaziali,
era per lei il tentativo di comprenderle, di offrire resistenza conoscitiva
ad un clima di generale insicurezza.
Dopo un periodo di solitaria esplorazione, Patrizia Alemanno ha ora
"varcato la soglia".
Si è liberata dell'ingombro di una fisicità in transito, ha osato oltrepassare
l'opacità pesante del mondo materiale, per nuovi incontri ravvicinati con
un una realtà fatta di soli bit.
I suoi ultimi lavori, creati completamente ex novo col computer, portano
alle estreme conseguenze i segnali di una mutazione culturale e antropologica
da tempo in atto: si aprono ad una nuova condizione cognitiva che estende
le funzioni del nostro corpo organico e, interfacciandolo con lo strumento
tecnologico, cerca di rimettere in discussione le modalità di rapporto tra noi e
il mondo esterno.
Un'ambigua familiarità pervade questi rarefatti spazi abitativi che nascono
( e muoiono) dentro il monitor, per lasciare traccia su esili supporti cartacei.
Sono simulacri di ambienti casalinghi sospesi e senza tempo
(dunque quasi senza colore), curiose e precarie apparizioni di mobili e
oggetti comuni, presenze intime, riconoscibili, eppure spiazzanti.
Un senso di inquietudine e di enigmatico mistero aleggia infatti
su queste sedute sbilenche, su questi divani e letti sghembi, su questi ripiani
instabili, dove slittano o fluttuano isolate tazzine da caffè o impossibili
cuscinetti orlati.
Come nelle "stanze" assurde di De Chirico, si dispiega così una
"metafisica del quotidiano" interpretata con un pizzico di morbidezza e rotondità
al femminile.
Giochi d'ombre, velature di grigi interrotte a tratti da singoli dettagli
colorati, amorose tendine che addolciscono finestre senza aperture, designano
ambienti senza uscita, luoghi mutanti e immateriali, che esistono solo nella
mente dell'artista e nella memoria del computer.
Altra faccia della medaglia, il "rovescio della visione", di un mondo troppo
pieno ma ugualmente ridotto a "svuotamento" e "smarrimento" ( Baudrillard).
Ma al tempo stesso specchio di un sé reificato che li rende quasi degli autoritratti
( nonostante l'apparente mancanza di figure umane), riflessi di un 'interiorità"
alienata nelle cose.
Il disagio dunque c'è sempre. Ed è un disagio esistenziale, che incontra i grandi
interrogativi dell'essere (e del non essere). Ma è anche un disagio sociale, la
coscienza delle crisi di un mondo sempre più minaccioso e violento.
Contro le grandi rimozioni, contro le vane fughe e soluzioni consolatorie con cui
l' Occidente esorcizza e rimuove le sue paure, Patrizia Alemanno ha scelto la via
difficile del confronto con una realtà "trasformata nel grado zero dell'assenza"
(Paolo Ferrari), con un silenzio che si fa fragoroso di fronte agli stridori della
comunicazione tradotta in spettacolo.
Le sue immagini leggere sono allora spazi in potenza, "fuori luogo" in tutti sensi:
dimensioni altre di una quotidianità protetta dallo schermo, che diviene rifugio
ma anche frontiera da varcare, limite da cui infrangere le regole, desiderio di
"esprimere dal Niente la possibilità, forse, di qualcos'altro" .
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