Appendiluce, 3Kb Omini, 6Kb
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LAURA AMBROSI

SHADOWLAND
Di Tiziana Conti

Una terra d'ombre, desolata, dove l'uomo è
diventato una presenza fragile, dove la
comunicazione è silente o ancor peggio,
è ridotta ad una informazione lineare.
Questa immagine inquietante mette a nudo
un'umanità soggiogata dall'ansia,
da una dolorosa negazione della vita,
in una dimensione temporale che, come
asserisce Ingeborg Bachmann, ormai è
"dilazionata", ci è concessa ma in
ogni momento può venire "revocata".
La riflessione sulla perdita di un
orizzonte esistenziale costituisce il
nucleo tematico intorno al quale si
muove sin dall'inizio Laura Ambrosi.
I suoi acrilici su tavola, i carboncini
e le sanguigne su carta ritornano
sempre ossessivamente all'idea dello
spostamento dell'uomo verso il centro
della terra, metonimia dell'enigma,
dell'abisso insondabile dell'anima.
Il fatto che l'essere sia asessuato
sottolinea la perdita di identità,
la sua riduzione a corpo oppresso dal
proprio fardello, forma chiusa, involucro
astratto che non rispecchia armonia,
quanto piuttosto individua l'ontologia
del vuoto.

Le coordinate dell' icona-uomo sono dunque
l'estraniazione e l'assenza, esemplate
attraverso figure tutte uguali, imprigionate
nell'elementarietà della propria struttura.
Prendono corpo da tali premesse le Installagmiti,
sculture in policarbonato alveolare,
sagome in parte "immerse" nella terra,
curve, raggomitolate su se stesse,
all'affannosa ricerca di una collocazione
possibile.
Viste dall'alto sembrano marionette raggelate
in un ambiente onnivoro nel quale "trascorrono"
senza poter lasciare una traccia durevole.
A partire da questa situazione implosiva la
ricerca si dilata successivamente ad un campo
semantico più ampio, in risposta all'esigenza
di un'estetica processuale i cui passaggi rendano
concreto il tutto qualitativo che pervade
la realtà.
L'ampliamento del linguaggio consente di
superare la chiusura ontica, stabilendo una
relazione tra uomo e "cosalità".
Il discorso è tanto semplice quanto efficace.

Il quotidiano nel quale siamo immersi è
popolato da una molteplicità di oggetti banali,
qualunque spesso superflui e ridondanti.
Essi segnano l'esistenza, evidenziando
uno iato: l'impossibilità di adeguare il
linguaggio alla cosa, tanto che di conseguenza
spesso l'oggetto si rivela un feticcio,
un simulacro.
Vale allora la pena di provare a trasformarlo
in una realtà-altra.
L'assenza che connota l'individualità umana
può diventare presenza evocativa nell'oggetto,
stabilendo una relazione di reciprocità.
In questo senso l'oggetto per Laura Ambrosi
diventa un EMBLEMA che trova la sua ragion
d'essere grazie alla commistione dei linguaggi
della scultura e dell'installazione.
Essi si integrano sino a
sconfinare nell'ambito del design interpretabile
nel senso indicato dal filosofo Max Bense,
come luogo di incontro tra la necessità delle
funzioni e l'innovazione estetica.
La prima conseguenza è il ribaltamento
dei predicati osservabili, cui pertiene
l'attitudine a configurare l'opera come un
tutto polimorfo dalla forte consistenza pragmatica.
L'artista "sente" la capacità gestaltica
dell'oggetto di catturare situazioni e la
esprime attraverso nessi che chiamano in causa
primariamente la polarità di interno ed esterno.
Nascono gli Appendiluce che palesano la luminosità
come elemento catalizzatore rapportabile con il
colore e lo spazio, in grado di rendere il
reale trasparente a se stesso, materializzando
il legame tra concetto e percezione.
Ma l' Appendiluce assume anche un altro
significato: esso richiama infatti la memoria
di un indumento, aprendo un discorso che trova
il suo perno nell'ossimoro illusione-essenza.
Lo sguardo ha dunque la preoccupazione di
radiografare una complessità enigmatica.

Il progetto della mostra raccorda tutti
questi elementi.
Nello spazio centrale della galleria si fronteggiano
due icone:
un impermeabile trasparente dotato di bottoni-luce
e un abito da sera nero.
Tra la funebrità e la trasparenza liquida si
instaura un rapporto dialettico teso
sul filo del paradosso.
Il nero è infatti riscattato dalla "tipologia"
del vestimento ideato per una situazione
"ufficiale", così come, a sua volta, la
perspicuità dell'impermeabile contrasta con il
plumbeo umore della pioggia.
L'elemento della ripetitività ossessiva
è invece palesata dagli oli su tela che
riproducono sagome di appendiabiti,
disposti in verticale, così da suggerire
l'idea di accumulo seriale.

Il senso traslato si fa ancora più evidente
nell'installazione di panni stesi all'aperto,
che ribadisce l'importanza del legame di
contiguità tra esterno e interno.
La disposizione statica degli
indumenti è solo apparente. A ben guardare,
infatti, essi offrono un intenso spaccato di
vissuto, rivelando la loro appartenenza
alla consuetudine, a momenti intimi e
significativi della vita di Laura Ambrosi.
Sono frammenti di una quotidianità che
cessano di essere banali nel momento in
cui si "situano" come presenza viva
o come emblematici reperti della memoria.


L'abito in questo caso non è un succedaneo
dell'individuo, né un involucro; esso
suggerisce una riflessione profonda sul
contrasto tra quanto si ascrive alla
dimensione tutta esteriore del feticcio
e quanto invece fa parte integrante e
costitutiva dell'esperienza.
Induce ad interrogarsi sulla sclerosi
che consegue alla perdita di individualità.
L'opera allora recupera e filtra il vissuto,
riscattando il valore del soggettivo: essa
è un'ipotesi che contribuisce ad emancipare
una realtà parallela a quella fisica,
materializzando la fluidità del divenire.
La reificazione non esaspera l'assenza;
piuttosto l'oggetto reclama la presenza
dell'uomo come unica possibilità di contrastare
l'invadenza illusoria, nella quale l'intervallo
tra uomo e oggetto diventa rumore sordo, mera
informazione.
L'oggetto di Laura Ambrosi entra nella vita,
quasi a voler dominare, attraverso la metafora
dell'assenza, i simulacri iperreali.

Tiziana Conti

Maionese
Crop
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