Segno di Proprietà, 14Kb

 

Eleni Dori

Outlines
di Tiziana Conti

 

Furono gli anni Ottanta a riproporre la necessità
della cultura pittorica, come ben analizza il
filosofo americano Arthur C. Danto.
Egli esamina il ritorno della pittura sulla
scena artistica nel segno di una "ricercata
avventurosità postmodernista".
Da un lato si fa strada una decisa figurazione,
che, dopo un lungo periodo di default,cerca
percorsi alternativi recuperando l’immaginifico.
Dal canto suo la pittura astratta che Clement
Greenberg aveva definito "l’inevitabilità
della storia", chiede perentoriamente di non
essere più identificata con la purezza, con il
rigore analitico asettico.
Ambedue respingono dunque le connotazioni
stereotipate: la figura vuol attingere alla
pienezza dell’esistente, l’astrazione allontana
da sé il fantasma della chiarezza e del
formalismo geometrico.
Da queste "rimozioni" prende corpo una nuova
pittura che sposta il suo statuto su confini morbidi,
attutiti, sostituendo a sterili dicotomie una
concezione dialettica tale da sfumare i contorni
dell’una nell’altra.
In questo ambito pittorico strutturato su
complementarità più che su attriti, si inserisce
la ricerca di Eleni Dori.
Il punto di avvio è l’oggetto quotidiano, qualunque.
Nei primi dipinti degli anni Ottanta si
tratta per lo più di oggetti prelevati dal contesto
ambientale, maniche a vento utilizzate negli aeroporti,
per esempio, o seghe del tipo adoperato in fabbrica.
Non c’è comunque in questa premessa alcun intento
demistificante né volontà di denuncia del feticismo
o del conformismo.
  Queste matrici confluiscono in una ricerca che chiede
una scena forte,ben connotata, intessuta di sinestesie
e impasti cromatici.
La tela è spesso di grande formato, quasi la pittura
volesse invadere lo spazio per trovarvi un respiro cosmico.
Il colore non è mai scelto a priori:
esso diviene per lente stratificazioni e alla
fine l’intera superficie è ricoperta da un "velo"
che a tratti pare lacerarsi, per lasciar affiorare
le tracce di un’originarietà incancellabile.
Il dipinto trattiene dentro di sé il fluire del
tempo e degli eventi, una patina di antico, immagini
che sembrano dissolversi all’improvviso per rinascere
in un rimbalzo di suggestioni e riverberi di luci.
I contorni paiono talora affiorare, talaltra
sprofondare: gli oggetti diventano parte di
un’iconografia ora rarefatta ora addensata che
va oltre la rappresentazione, proiettandosi
verso un orizzonte aperto, a costruire
un’archeologia dello spirito e della memoria.
Le separazioni si ricompongono, restando appese
a un filo che riesce a far emergere l’instabilità
metamorfica del reale attraverso il divenire
dei segni che "eccedono" la tela.
Percettivamente il quadro ha un equilibrato assetto
compositivo:
le figurazioni, non costrette dai vincoli della
logica analitica, sono "leggere", paiono danzare
sulla tela; i dettagli trasmettono e comunicano
vibrazioni, senza travestimenti.
L’oggetto, liberato dalla "cosalità", si assolutizza
allora in una dimensione nella quale il silenzio,
come sostiene il poeta Paul Celan, è parola taciuta.
Qui i fantasmi del quotidiano si esorcizzano, si
resta in ascolto tra desiderio e smagamento.
Presenze riverberanti.
Nulla a che vedere con un’arte che si propone di
evidenziare le ossessioni quotidiane.
L’oggetto è piuttosto considerato un elemento
primario che diventa "curioso" nel momento in cui
rinvia ad altro da sé.
A ben guardare, esso è una forma aperta che innesca
una reazione a catena di stati metamorfici; sotto
le spoglie iniziali si individua, per ripetere
parole di Max Bense, una "realità" diversa,
evidenziata pittoricamente da linee/contorno o
dall’ombra, che ne dilatano il senso.
Deviazioni, spostamenti, rinvii producono alla
fine del percorso una struttura del tutto differente
da quella iniziale, pur permanendo il carattere
distintivo dell’unicità.
La Dori individua nell’oggetto una vita interiore
che gli consente di rigenerarsi; pone in primo piano
una sorta di forma-scheletro ricorrente, il cilindro,
una figura geometrica cui pertiene, oltre all’equilibrio
e all’armonia, la caratteristica della stabilità,
ma che può altresì essere manipolata ed elaborata
in un gioco infinito di combinazioni e di posture.
In tal modo la pittura acquisisce la facoltà di
suggerire, piuttosto che di definire, lasciando ampio
spazio all’imagerie,così da superare gli equivoci e
la piattezza dell’abitudine.
  È come se la Dori volesse suggerire che esiste
una vita segreta "e gioiosa" nelle cose: basta
lasciarla fluire, non convenzionalizzarla,
non renderla uniforme.
L’opera sta tra il trovato e l’inventato, attuale
e insieme arcaica.
Il ciclo di dipinti presentati in mostra è
incentrato sul tema del mobile di antiquariato.
Il punto di avvio è l’oggetto quale si presenta
in riproduzioni fotografiche su riviste o cataloghi
di genere: esso viene comunque scelto in base a
caratteristiche ben precise.
Si tratta sempre di mobili con un elevato valore
mercantile, tanto elaborati da risultare ridondanti,
persino leziosi.
Essi diventano il pretesto per una riflessione
pittorica: vengono ricontestualizzati, enfatizzati
attraverso modifiche volte a rimarcare proprio le
caratteristiche più appariscenti.
Ad esempio una scrivania da viaggio è l’occasione
per quattro dipinti che fin dal titolo evidenziano
l’attitudine ad una operazione pittorica e
semantica insieme: la scrivania si trasforma di
volta in volta in
Scarpiera da viaggio, Cultura da viaggio, Pittura da
viaggio, Cilindri da viaggio.
L’icona non subisce un processo di decontestualizzazione,            
piuttosto si smaterializza, evidenziandosi nei contorni,
viene attraversata da memorie, da riferimenti obliqui,
dissimmetrici.
L’ombra diventa l’alter ego della forma, il suo doppio
enigmatico e inespresso.
L’ossatura narrativa si estende in uno spazio franco
nel quale il linguaggio pittorico si riformula
continuamente.
Tutto è evidente eppure misterioso, reale eppure dilatato.
La pittura si rivela come collante capace di favorire una
"fabulazione"evocativa, restando sempre al limite tra la
definizione dell’icona e il concetto, la narrazione e la
contingenza. Un tale approccio alla realtà è probabilmente 
influenzato
anche dal confronto dell’artista con culture esperite
in paesi diversi,la classicità messianica della Grecia
(sua terra di origine),la peculiare mescolanza di estetico
ed etico dell’Inghilterra (dove ha trascorso gli anni della
formazione), e il crogiolo di apollineo e dionisiaco
dell’Italia (dove attualmente vive).
          I quattro titoli spostano l’accento, ironicamente,
su un ventaglio di possibilità connesse con la tematica
del viaggio "dentro"alle quali l’oggetto iniziale
si metamorfizza, perdendo -o piuttosto accentuando?-
il suo carattere di preziosa futilità.
Quella della Dori è una "pittura progressiva" che
genera una complessa fenomenologia visiva.
Si pone ai confini del dire, pare chiedere
all’osservatore di muoversi nelle sue vicinanze e
dentro ad essa senza avere mai la pretesa di
esaurirla.
Cercare certezze ad ogni costo
significherebbe infatti interrompere il richiamo
che deriva dalla miriade di indizi che legano
il nostro sentire al processo creativo.
Tiziana Conti
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