comporre l'infranto 
   di Ernesto Pezzi

Perla Flors.


COMPORRE L'INFRANTO
Il Mare di Perla Flors alla
Galleria En Plein Air di Pinerolo

Per farsi strada nel pane, cioè:
mangiarlo, bisogna romperlo, spezzarlo.
Qualcuno penserebbe di offendere il pane, dividendolo con le mani, se anche qualche briciola sfugge e cade fino al suolo? Non credo.
Mi piace pensare che il pane ama il calore delle mani che lo fa boccone e briciola. Sembra strano, ma, quando una forma va perduta, viene alla luce una materia; lo si vede innumerevoli volte nella storia, che è la storia della dissoluzione delle forme: continuamente erose, alla fine le forme cedono di fronte al trascorrere, alla determinazione corrosiva della vita.
Ogni polvere è stata un impero, di cui non avremo mai cognizione, noi che siamo nati alla polvere.
Ogni volta che vediamo un'opera d'arte,
sarebbe necessario chiederselo: da dove ciò che la compone, qual è la sua memoria muta?
C'è una certa crudeltà nella sua bellezza,
nella bellezza dell'opera, la cui faccia nascosta è l'oblio che brandisce, nel proprio splendore , nella propria fiamma, che accieca la memoria della materia.
Nel bronzo, nel colore, nell'acqua, persino nell'idea che viene esibita, c'è qualcosa che risulta irrimediabilmente celato.
Qualcosa ,certo, di spurio, di ambiguo, che non accede alla purezza dell'opera, ma qualcosa che era stato vita: vita presa nella caducità, e scomparsa.
    Per chi non l'avesse visto, a Pinerolo,
c'è un Mare sbriciolato in un fienile, in questo Piemonte così lontano dal mare.
Perché il Piemonte è un'isola, un'isola in mezzo alla terra, serrato dalla terra in tutte le direzioni: un luogo di naufragio. In un fienile di Pinerolo è stato spezzato un mare come un pane, in briciole non troppo piccole, che possono essere bocconi. Questo Mare non è commestibile, è di vetro.
Quale forma avesse avuto prima questo vetro, non lo sapremo mai, forse quella di un impero: ma le durate del tempo impongono dei confini alla nostra conoscenza, alla nostra memoria, che non è possibile valicare.
Ora comunque è un mare, un mare non disabitato, da cui traspaiono grandi, quieti pesci colorati.
Che cosa fosse prima non è dato saperlo.
Forse un impero: ora, le briciole di questo impero inconoscibile, sono comunque di nuovo materia, cioè pane che passa attraverso le mani, le dita, pane per il calore degli occhi.

     L'arte è un pane paradossale, un pane anche per gli assenti.
Già che un'opera d'arte non è completamente presente e si allarga in quelle zone del tempo che sono chiamate passato e futuro, c'è una parte di essa, che a noi risulta nascosta, ma che è palese a chi non c'è più, e lo alimenta di questo ricordo che dalla nostra parte appare come oblio.
Dal momento in cui nasce, l'opera vale anche per il passato, tanto quanto vale per il futuro, ed è quindi un dono, che viene ricevuto lontano dal nostro presente, lontano dalla nostra vista.
Ed ecco svelato il mistero della crudeltà dell'arte, che non è un mistero, ma un enigma, per il quale 'opera vale anche per il tempo che l'ha preceduta, che si conserva, agisce, vive, invisibile nella sua materia ricevendola di nuovo nuova.
Ed ecco perché l'opera, pur nuova, pur immemore nella sua apparenza, è un pane spezzato anche per chi non c'è, o non c'è più.

    Si racconta in un libro di un angelo le cui ali sono impigliate nel vento della storia, e che procede a ritroso, e vede accumularsi rovine su rovine al suo passaggio, ed egli vorrebbe trattenersi destare i morti e ricomporre l'infranto, ma non si può.
Di fronte al Mare nel fienile di Pinerolo ci si chiede se bisogna dunque acconsentire a una natura angelicale di Perla Flors per questa sua capacità di ricomporre l'infranto.
Ci sembra che la risposta sia: no; ciò che impedisce all'angelo di fermarsi è la sua impossibilità di creare - agli angeli non è assegnata questa capacità.
E poi Perla neppure ricompone, piuttosto compone.
Quanto c'è di acuminato nel vetro infranto è passato al vaglio del tatto, pazientemente, manciata a manciata.
Di questo procedimento possiamo considerare l'ottimismo, la pazienza: io ne valuterei il contenuto di speranza,
il suo riferirsi a una riserva inesauribile di speranza. Il procedimento di realizzazione dell'opera, detto di cristallizazione, richiama un principio costruttivo illimitato, quello dell'accrescimento del cristallo, a partire da una particella elementare la cui forma rimane uguale a quella del risultato di ogni fase dell'accrescimento.
L'opera si sviluppa a partire dalla necessità delle sue particelle elementari, seguendo un vero e proprio conatus spinoziano, che solo la cessazione del lavoro dell'artista conclude in un punto di equilibrio.
L'opera è dunque infinita, o meglio, contiene ripiegato in sé un infinito, coerentemente alla propria essenza monadica.
Infatti la sua quiete che rifrange la luce da un numero incontabile di riflessi non deve ingannare.
Si tratta di un mare cristallizzato, ma pur sempre di un mare, adagiato in un fienile di Pinerolo.

  Risulta inquietante pensare che rimane lì, anche quando non c'è nessuno, anche mentre nessuno lo guarda.
Gli si indovina un suono-un sapore, nelle sue caratteristiche squisitamente visive, cristalli di sale e di zucchero vibrazioni sostenute degli archi, interminabili, proseguimento del fruscio dello scorrere dei frammenti tra le dita, del suono acuto del loro frantumarsi, ma suono
senza più atto, e quindi continuo, senza più modulazioni o pause, suono sostenuto dagli archi, all'unisono, continuo, come un'onda immobile (1)
Se l'opera vale anche per chi non c'è, allora noi valiamo per essa anche mentre non ci siamo: una responsabilità, del tutto estetica, allaccia un legame tra noi e il Mare, che si potrebbe definire in questi termini:
quella parte di noi stessi che è presente al Mare, rimane presente anche quando noi l'abbandoniamo.
Il Mare la serba, per noi, anche per noi, indefinitamente.

    Dopo la sua ostensione, l'opera viene comunque immagazzinata, perché costituisce una riserva, a riprova del fatto che esistono riserve infinite di speranza, anche se forse è a nessuno di noi che verranno assegnate.
Il problema non è da poco: in che maniera farsi carico di questo Mare, una volta che è stato dispiegato alla vista?
Elena Privitera
che ha promosso e ospitato l'opera, ha concepito che questa distesa dovesse essere travasata in alcuni contenitori.
Si tratta del suo riflusso. Il Mare così attenderebbe, allo stato di riserva, di propagarsi di nuovo.
La sua durata di opera sarà modulata dal flusso che la elargisce, la rende palese, ed il riflusso che la conserva.
Abbiamo così assolto ad un compito, che è il compito del gallerista: quello della cura dell'opera , una volta che essa è stata compiuta dall'artista.
L'opera ne ha bisogno, perché non abbandonerà mai la propria infanzia.
L'artista è già altrove.
E l'opera, nella sua singolarità, è retta da una stringente solitudine, dalla quale essa osserva, e porge una mano.
Spetta così al Gallerista di accudirla, e deve farlo con singolare sensibilità, rendendosi talmente trasparente da rendere visibile ciò che visibile già è.
L'ospitalità per l'artista e la cura per l'opera.
C'è chi ancora vi si dedica.

(1)"La prima sinfonia si inizia con una lunga nota tenuta degli archi, tutti con armonici ad eccezione del terzo gruppo più grave dei contrabbassi,
arrivando fino a la sopracuto un suono dal sibilo fastidioso, simile a quello emesso da certe aocomotive antiquate. (..)
Per qualche secondo sembra che in questa sinfonia si sia realizzato ciò che per una vita intera ha sperato lo sguardo puntato dalla terra al cielo.(..)
Tutta la musica promette con suo suono qualcosa di diverso, promette di fendere un velo (..)
E' come un adolescente che alle cinque del mattino venga svegliato da un suono sferzante e prepotente: non potrà mai dimenticare di attenderne il ritorno chi lo avvertì in un attimo di dormiveglia.
Il pensiero metafisico appare, di fronte a questa corposità, esangue e sprovveduto come un'estetica che voglia sapere se in quella forma l'attimo è compiuto o solo suggerito, mentre per lui quella
frattura interiore è sostanziale ed esso si ribella all'apparenza dell'opera compiuta"
Adorno , Mahler, in Wagner, Mahler, Torino 1966 p.140-141


                      







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