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LA VIOLENZA NEL LAVORO SUI MINORI NEI PAESI
DEL BACINO DEL MEDITERRANEO.

di Francesca Pignatelli


   
Il problema della violenza nel lavoro sui minori
nei Paesi del Bacino del Mediterraneo è un problema dai
molteplici aspetti ed il cui studio nasconde numerose insidie.
In particolare, trattandosi di uno studio in qualche modo di
carattere "comparativo" in senso sia sincronico che diacronico,
in quanto tendente a confrontare situazioni geograficamente
diverse anche nel loro aspetto evolutivo, sarebbe di fondamentale
importanza possedere dati il più possibile attendibili e tra di
loro confrontabili.
Verrà esaminata più avanti la grande difficoltà di
ottenere dati attendibili su questo argomento, difficoltà
dovuta alla sostanziale illegalità del fenomeno ed alla sua
clandestinità.

   Per quanto concerne la loro comparabilità è necessario
in primo luogo delimitare con precisione l'ambito di riferimento.
Non è corretto, infatti, parlare genericamente di violenza sul
lavoro sui "minori" nei Paesi del Bacino del Mediterraneo posto
che le varie legislazioni collocano la maggiore età in momenti
diversi e si regolano di conseguenza per quanto concerne l'accesso
al mondo del lavoro.
Anche la scuola dell'obbligo, del resto, termina ad età differenti
e generalmente, anche nei Paesi che vengono considerati maggiormente
evoluti, prima del compimento della maggiore età e cioè intorno ai
quindici-sedici anni.
La legislazione italiana attualmente in vigore all'art. 1 della
L. 17/10/1967 n. 977 sulla "Tutela del lavoro dei fanciulli e
degli adolescenti" stabilisce che "... per fanciulli si intendono
i minori che non hanno compiuto i quindici anni, per adolescenti
si intendono i minori di età tra i 15 e i 18 anni". All'art. 3
della stessa legge si stabilisce che l'età minima per l'ammissione
al lavoro è fissata a 15 anni.
E' del tutto "fisiologico", pertanto, che gli adolescenti, pur
essendo minorenni, svolgano un lavoro retribuito che, al di là
di alcune tutele particolari, quali il divieto di lavoro notturno,
previste da alcune legislazioni, può essere tranquillamente
equiparato al lavoro degli adulti.

In effetti la maggioranza degli studi e delle statistiche esistenti
su questo argomento si riferiscono al lavoro dei bambini fra i dieci
e i tredici anni.
Il lavoro dei bambini al di sotto dei dieci anni, pur essendo
tutt'altro che trascurabile, soprattutto nelle zone rurali dove
molti bambini iniziano la loro attività lavorativa a cinque o sei
anni, è però di difficilissima rilevazione in quanto spesso si
svolge tra le mura domestiche e quasi sempre in forme di elevata
clandestinità.
Appurato, quindi, che la maggior parte dei dati si riferisce
alla fascia di età compresa fra i dieci e i tredici anni, si
pone un altro grande e sostanziale problema, sempre riferito
alla comparabilità dei dati.
Il tipo di lavoro dei bambini non è affatto omogeneo: cambiano
il numero di ore lavorate, il tipo di lavoro svolto, le condizioni
igieniche in cui il lavoro viene svolto, l'esistenza o meno di
retribuzione. Appare evidente la difficoltà di comparare le
attività part-time di alcuni bambini scolarizzati, ben nutriti
e inseriti socialmente, con le forme di vero e proprio schiavismo
che ancora oggi, purtroppo, esistono.
   
foto, 1Kb La Convenzione internazionale per i diritti dell'Infanzia, che
rappresenta, ad oggi, il più significativo atto d'impegno in
favore della infanzia, è il documento cui tutte le Nazioni
dovrebbero fare riferimento.
La Convenzione è stata approvata nel 1989 ed è stata recepita
dallo Stato Italiano nel 1991.
Per quanto concerne gli Stati africani l'OUA ha approvato
nel 1990 la "Carta Africana dei diritti e del benessere
del bambino".
Nell'ambito della Convenzione Internazionale i punti che
maggiormente attengono all'argomento di cui si tratta sono
essenzialmente i seguenti:

1)L'insegnamento primario è gratuito ed obbligatorio,
la disciplina scolastica deve rispettare la dignità del bambino.
2)I bambini hanno diritto al riposo ed al gioco, nonché ad
attività culturali ed artistiche in condizioni di uguaglianza.
3)Gli Stati proteggono il bambino dallo sfruttamento economico
e da lavori che potrebbero compromettere l'istruzione o
nuocere alla salute o al benessere.


Da questi fondamentali e chiari principi emerge con evidenza
che lo sfruttamento del lavoro minorile, così diffuso in molte
società in via di sviluppo e così presente in maniera sommersa
nei Paesi del benessere, è un vero e proprio moltiplicatore di
diritti lesi come l'istruzione, la sicurezza sociale, il diritto
al gioco o allo svago ed al riposo e, infine, in molti casi,
il diritto alla salute.
Con particolare riferimento a quest'ultimo aspetto è chiaro che
più giovane è il bambino più è vulnerabile ai rischi fisici,
chimici e a tutti gli altri presenti sui luoghi di lavoro:
alte concentrazioni di piombo e di mercurio nel sangue, ferite
da esplosione, ferite conseguenti a maltrattamenti, tetano,
problemi polmonari, deformazioni dello scheletro dovute al
sollevamento di pesi eccessivi, malattie della pelle ed altre
malattie provocate dalla totale mancanza di igiene.


   
Una particolare attenzione merita il settore
dell'agricoltura. Questo settore comprende il maggior numero
di bambini che lavorano ed è uno dei più pericolosi per la
salute e la sicurezza.
Nell'agricoltura si praticano degli orari di lavoro molto
lunghi che impediscono in modo assoluto la scolarizzazione.
A ciò si aggiungono il rischio climatico, i carichi troppo
pesanti, gli strumenti affilati. La modernizzazione
dell'agricoltura ha aggiunto il problema delle sostanze
chimiche tossiche, all'uso delle quali i bambini non sono
certamente istruiti.
A tutto ciò si aggiunga che i servizi sanitari tradizionali
ed ufficiali non si occupano della salute dei bambini che lavorano.
I servizi di medicina generale non prestano cure a questi bambini
ed i servizi di medicina del lavoro sono organizzati per lavoratori
giovani ed adulti, ma non bambini. Solo la medicina di base, là
dove interpellata, si occupa di questi bambini, ma ovviamente
non può provvedere a controlli sistematici e periodici sui
luoghi di lavoro.

   
Altro diritto di grande rilevanza leso dal lavoro
infantile è quello alla scolarizzazione.

E' evidente che occorre distinguere i casi in cui il lavoro
costituisca per il bambino l'occupazione primaria e preminente
dai casi in cui la lavoro è esercitato in momenti particolari
dell'anno o del giorno.
Nei Paesi dell'Europa del Sud un numero relativamente alto di
bambini sono stati sempre impiegati nei lavori a carattere
stagionale, piccole sartorie, lavori a domicilio. Tale tipo
di occupazione, così come quello di molti ragazzini dei Paesi
industrializzati che lavorano sporadicamente o solo durante
i fine settimana o nelle vacanze scolastiche, consente
generalmente la scolarizzazione primaria ed un certo tipo
di socializzazione.
Un esempio tipico di lavoro infantile che ci riguarda piuttosto
da vicino, e che in genere non limita la scolarizzazione, è
quello dei bambini che svolgono lavori manuali al loro domicilio
insieme ai propri genitori, i quali consegnano poi il lavoro
svolto alle industrie che li retribuiscono in proporzione alla
quantità di lavoro effettuato.
Questo fenomeno, una volta molto diffuso anche nelle nostre
vallate, e poi in quale modo arginato dalle difficoltà fiscali
ed organizzative che comportava, rischia di riproporsi oggi e
nel futuro con il tele-lavoro.
Sono innegabili i vantaggi di un'organizzazione del lavoro che
non comporti lo spostamento dalla abitazione per raggiungere
il luogo di lavoro, che eviti l'allestimento di uffici, mense,
ecc., tuttavia i controlli circa l'effettivo svolgimento del
lavoro da parte del dipendente saranno più complessi e di
difficile attuazione.
     Molto diverso è il caso dei bambini dei Paesi in via di
sviluppo che si trovano ogni giorno nella necessità di
guadagnare il necessario per vivere o sopravvivere.
Per tale motivo molti di questi bambini sono esposti ad
orari di lavoro eccessivi. Il lavoro costituisce una
attività permanente che li occupa tutti i giorni per molte
ore e che impedisce la prosecuzione degli studi in condizioni
soddisfacenti.
In genere la bambine lavorano molte più ore dei bambini.
In particolare ciò riguarda le bambine che lavorano come
personale domestico o le bambine che aggiungono il lavoro
presso la propria abitazione al lavoro esterno.
La mancata scolarizzazione è sicuramente un effetto del
lavoro minorile, ma in alcune circostanze ne è una concausa.
Soprattutto nei Paesi Africani il numero di scuole insufficienti
e sovraffollate, nonché la loro lontananza di centri abitati,
scoraggiano la frequenza scolastica. Né la incoraggiano le mura
scrostate, l'igiene scarsissima e la loro esposizione alle intemperie.
E' l'evidente fallimento di un sistema educativo incapace di
contrastare la tentazione di una fonte di reddito immediato.
Da qui la tendenza dei genitori a portare con sé i bambini nei
campi o presso le abitazioni in cui lavorano e, di seguito, ad
introdurli nell'ambiente del lavoro.
Alla mancata scolarizzazione conseguono la mancanza di prospettive
di miglioramento ed al lavoro prestato fuori dall'ambito familiare
conseguono gravi carenze psico-sociali. In particolare vengono a
mancare completamente o quasi i contatti affettivi con la propria
famiglia di origine il che costituisce una prima forma di violenza
di tipo psicologico alla quale molto frequentemente si affiancano
vere e proprie violenze di tipo fisico, maltrattamenti ed abusi sessuali.
Uno studio dell'Organizzazione mondiale della Sanità riferisce che
in Kenya i bambini impiegati come domestici soffrono di gravi sintomi
di regressione, invecchiamento precoce, depressione, ecc.
In assoluta violazione di qualunque convenzione internazionale si
colloca, naturalmente, la riduzione in schiavitù dei bambini.

 
  La Convenzione del 1926 sulla Schiavitù stabilisce che la
schiavitù di un bambino è lo stato o la condizione di un bambino
sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o
alcuni di essi. il bambino diventa un "bene", una cosa che può
essere scambiata. Il proprietario lo può fare lavorare direttamente
al proprio servizio o consegnarlo a qualcuno che lo utilizzerà
dietro corresponsione di un corrispettivo (al padrone).
Lo schiavismo è vietato da moltissime convenzioni internazionali,
largamente ratificate, il che non esclude che venga praticato.
L'Organizzazione Internazionale del Lavoro ha stimato in diecine
di milioni il numero dei bambini ridotti in schiavitù.
Alla luce di tutte le considerazioni svolte bisogna leggere le
statistiche sul lavoro infantile.
L'espressione "lavoro dei bambini" comprende realtà molto diverse
con conseguenze molto diverse.
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L'altro grande problema che devono affrontare le
Organizzazioni che si occupano di questo problema è la
scarsità dei dati a disposizione.
Per poter stimare su scala mondiale il numero e la proporzione
dei bambini inseriti nel mondo del lavoro bisognerebbe disporre
di dati fedeli dei vari Paesi. Ciò in realtà non si verifica.
Il lavoro minorile è per lo più clandestino e spesso si svolge
all'interno delle mura domestiche e non vi è alcun interesse,
da parte di nessuno, a diffondere i dati che riguardano questa
realtà.
Si sa qualcosa dei bambini occupati e "regolarmente" stipendiati,
ma questi costituiscono una piccola minoranza della totalità
della manodopera infantile.

Uno dei più significativi indicatori è costituito dalle cifre
sulla scolarizzazione.
Secondo l'UNESCO nel 1990 il 20% dei bambini nell'età del primo
ciclo scolastico non ha frequentato la scuola.
Si può ragionevolmente ritenere che una gran parte di questi
svolgesse un'attività economica.
Per quanto concerne il secondo ciclo scolastico, la percentuale
sale al 50%.
In linea generale si può affermare che il lavoro infantile si
riscontra soprattutto nei Paesi in via di sviluppo e nelle zone
più povere dei Paesi industrializzati.
L'Asia è la regione che conta il maggior numero di bambini
impegnati nel lavoro. Seguono l'Africa e l'America Latina.
una forte recrudescenza del lavoro infantile è stata rilevata
in alcuni Pesi dell'Europa centrale o orientale a causa delle
difficoltà che la trasformazione da una economia pianificata
all'economia del libero mercato ha causato a larghe fasce della
popolazione.

    Anche gli Stati Uniti non sono immuni da tale fenomeno,
sia pure con modalità differenti.
Per quanto concerne l'Italia e gli altri Paesi del Bacino del
Mediterraneo la situazione, sia pure con tutte le riserve già
espresse in merito alla rilevazione dei dati, non è gravissima
se si escludono l'Egitto e, soprattutto, la Turchia, i quali,
rispettivamente, con l'11,23% ed il 24% rispecchiano una
situazione davvero preoccupante.
In Italia si stima una percentuale intorno allo 0,38% che si
concentra per lo più nel sud e nelle popolazioni nomadi.
Sono queste, in effetti, le fasce di maggiore povertà del Paese
insieme alle comunità di immigrati.
Si apre, a questo punto, un discorso in qualche modo critico che
gli operatori sociali hanno già sollevato nell'ultimo decennio.
In particolari situazioni, si afferma, non è giusto stabilire
l'equazione lavoro minorile = violenza sui minori.
Se non vi sono dubbi sul fatto che tale equazione sia valida nei
casi di schiavismo e nei casi di lavori pericolosi, nocivi alla
salute e segreganti per il bambino, con maggior cautela bisogna
considerare i lavori che sottraggono i ragazzini alla prostituzione,
alla micro delinquenza, alla strada, alla miseria.
Una eccessiva discrasia fra le leggi e le condizioni sociali in cui
si collocano porta inevitabilmente alla mancata applicazione di
tali leggi e, di conseguenza, alla devianza sociale, alla
microcriminalità, alla emarginazione.
Per questo le Convenzioni Internazionali, pur valendo come principi
di massima cui tutte le Nazioni dovrebbero mirare e cercare di
adeguarsi, tuttavia non possono trovare uguale applicazione in
tutti i Paesi.

   E' sempre la povertà la causa prima del lavoro infantile.
Essa costringe molti bambini a lavorare per sopravvivere e quando la
famiglia è così povera da indurre a far lavorare i bambini, è
impensabile che possa finanziare la scolarizzazione di questi.
Anche se la scuola dell'obbligo è definita gratuita, comporta,
in realtà, oneri che possono esse tutt'altro che insignificanti.
Non bisogna trascurare il fatto che spesso l'abbandono scolastico
è dovuto allo scoraggiamento del bambino che non ha un supporto
sociale e familiare e che non vede riconosciuto il valore dei suoi
sforzi e delle sue fatiche.
Ciò accade per lo più in ambienti molto disagiati dove è scarsa la
comprensione dell'importanza della cultura e della alfabetizzazione.
Nel mondo solo il 68% dei bambini terminano il primo ciclo della
scuola dell'obbligo.
Tenendo conto che tale percentuale si eleva al 98% nei Paesi
industrializzati si ricava che negli altri Paesi si abbassa
intorno al 48-50%.
Un altro elemento che si affianca alla povertà è il numero
elevato dei componenti della famiglia. Più una famiglia è
numerosa più ci sono probabilità che i bambini lavorino e
più è basso il livello di scolarizzazione.
Recenti studi (Grootae, C. et KanburR "Le Travail des enfants:
un point de vue economique" Revue international du travail, vol.
134 n. 2) indicano che una politica tendente a ridurre la
grandezza della famiglia è in grado di ridurre il numero dei
bambini che lavorano e di accrescere il livello di scolarizzazione.

Per comprendere come sia rilevante, anzi quasi univocamente
determinante, il fattore "povertà" nello sfruttamento del
lavoro minorile è interessante fare riferimento al preambolo
della Carta Africana dei diritti del bambino.
In tale preambolo si sottolinea come la situazione di molti bambini
africani sia dovuta ai soli fattori socio-economici, culturali,
tradizionali, alle catastrofi naturali, all'esplosione demografica,
ai conflitti armati, ecc..
Gli indicatori economici segnalano per l'Africa una povertà estrema,
sia pure in qualche modo attenuata per l'Africa del Nord.

Proprio questi indicatori devono indurre a modificare un'affermazione
che spesso inquina gli studi sul lavoro minore "La povertà delle
famiglie induce il lavoro minorile". Sarebbe più corretto dire che
la povertà del contesto economico e sociale imposta alle famiglie
induce il lavoro minorile.
Non è una semplice questione di forma in quanto si sposta il campo
di studio e di intervento. Solo un'evoluzione del contesto sociale
può portare a una diminuzione se non alla scomparsa del lavoro minorile.
Nei paesi africani, soprattutto del sud, i governi in difficoltà
tagliano i fondi per i settori che hanno una influenza diretta sui
bambini, in particolare la sanità, l'educazione ed i servizi sociali
con ovvie conseguenze di grave difficoltà per le famiglie.
Un altro fattore che induce l'utilizzazione lavorativa dei bambini è
la politica anti-immigrazione dei Paesi Europei che non consentono
agli immigrati di contribuire al sostentamento delle proprie famiglie
nei Paesi d'origine.
La legislazione sia a livello internazionale sia a livello nazionale
dei Pesi Africani non può essere considerata carente.
I codici del lavoro esistono e trattano in specifico il lavoro dei
bambini.
Le leggi sono rispettate dalle grandi imprese e non è frequente che
i Tribunali si trovino ad affrontare tale problema.
Il vero dramma sta nel fatto che il lavoro minorile è completamente
clandestino e pertanto i bambini che lavorano sono del tutto privi
di qualunque tutela sia essa sanitaria o giuridica o sindacale.
In un articolo di Michel Bonnet "Le Travail des enfants en Afrique"
pubblicato sulla Rivista internazionale del lavoro n. 3 del 1993
è contenuta una bella immagine che giustifica, in qualche modo,
l'esistenza di questo breve lavoro.
Quando si studia l'evoluzione delle legislazioni nazionali e delle
norme internazionali, specialmente le numerose convenzioni dell'OIT,
viene da pensare alle onde del mare che battono sulla riva e,
alla lunga, ne cambiano l'aspetto. Le varie leggi, convenzioni,
i dibattiti, gli articoli e tutte le parole che vengono spese su
questo argomento sono l'acqua dell'Oceano espressione di un forte
movimento mondiale che faccia progredire l'umanità verso un sempre
maggiore rispetto per i diritti del bambino.
Non tutti i Paesi ci arriveranno insieme, ma la direzione deve
essere questa.
Ci sono, naturalmente, moltissime proposte per raggiungere l'obiettivo
della eliminazione o della riduzione del fenomeno.
Importante forse sarebbe, almeno per i bambini più grandi, la
regolamentazione del fenomeno.


   
Vi sono numerose campagne tendenti al boicottaggio delle aziende
che utilizzano manodopera infantile che, tuttavia, alla luce di tutte le
considerazioni sinora svolte, appaiono, a mio parere, più utili alla
diffusione di una certa sensibilizzazione del problema che veramente
incidenti sul problema stesso. Tutti gli studi svolti indicano che solo
lo sviluppo economico-sociale e culturale dei Paesi che impiegano i
bambini può eliminare o ridurre fortemente il fenomeno.
Le sporadiche iniziative di boicottaggio rischiano, anzi, di creare
ulteriori nuovi squilibri.
Il lavoro deve tendere alla sensibilizzazione, agli aiuti economici,
a progetti di sviluppo di scuole, di corsi di avviamento professionale,
di incentivi per gli artigiani e di tutto quanto può consentire ai
bambini ed ai ragazzi di formarsi ad una professione per non rimanere
schiavi della loro ignoranza oltreché dei loro padroni.

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