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RICORDARE

Mio fratello è stato un cane lupo.
Non serba ricordi di quella precedente vita ma ha chiara la sensazione della sua anima che si stacca dal corpo già brulicante di vermi. Si libra verso l’alto e rimane lì, a guardarsi decomporre.
Da bambini ci bastava pronunciare la parola “vermi” per fare accapponare la pelle a cane lupo.
Nostro padre di lui diceva che da grande non avrebbe avuto problemi a trovare lavoro: “Farà la sirena dei pompieri” asseriva quando attaccava a piangere, su un’unica nota, acutissima, snervante, senza fine. Per diversi anni ho immaginato che la sirena dei pompieri fosse un signore con le fattezze di un bimbo.
A me e ai miei fratelli maggiori piaceva fare piangere cane lupo, “Hai i vermi nei capelli, hai i vermi nella minestra” o persino “hai i vermi negli occhi”, lo spaventavamo al solo scopo di predirgli l’ipotetico futuro: “Da grande farai la sirena dei pompieri”.

A quanto so, cane lupo prese ad avere terrore dei vermi durante un temporale. Aveva due anni. Quel pomeriggio, prima che il cielo si oscurasse, avevamo giocato a fare pallottole di fango nel cortile di casa, uno svago che tra noi chiamavamo con un nome la cui origine è stata dimenticata da tutti: “Denciu d’le patate”. 
Anni dopo vidi fare lo stesso gioco ai miei fratelli minori ma aveva cambiato nome. Per i miei fratellini si chiamava “Denciu d’le tre patate”. Sembrava persino avere un senso più compiuto rispetto a quando ci avevo giocato io. Le pallottole per loro erano simbolo di veri tuberi, dopo averle arrotondate diligentemente tra le mani le mettevano nella pentola in cui mangiava il cane.
In mezzo al cortile realizzavamo i nostri manufatti. Nostra madre seduta sul gradino d’ingresso alla cucina sgranava piselli, raschiava via la buccia alle carote, lanciava foglie d’insalata appassita alle galline. Cane lupo, tutto nudo, era imbrattato di fango fin nei capelli. Io versavo acqua dal secchiello di alluminio, quello che nostra madre usava e per mungere le mucche e per spruzzare, a manate, acqua sul pavimento di terra battuta della cucina perché non si sollevassero nuvole di polvere. Il maggiore di noi, un anno più di me, in mutande, la lingua stretta tra i denti – può darsi che sbagli, può trattarsi di una suggestione dovuta alla sua attuale professione di impresario edile –, anziché appallottolarlo il fango, lo distendeva nella forma di rettangoli, a creare dei piccoli mattoni. 
… Quand’ecco l’arcana presenza. La signora lì per lì sembrò una passante qualunque. Mia madre, che certo doveva averne tenuto d’occhio il cammino fin su alla nostra borgata da quando ancora era lontana a valle, non aveva ritenuto opportuno farci nascondere in casa, al piano di sopra, accovacciati l’uno accanto all’altro contro la parete sotto la finestra, il fiato trattenuto.
La signora aveva interrotto la sua passeggiata per guardarci giocare.
Mia madre aveva piegato la testa di lato, l’aveva guardata, ci aveva guardati, il sorriso meraviglioso, orgogliosa. Le aveva permesso di partecipare al nostro mondo. Nostra madre si era fidata di lei.
Alcuni anni dopo, osservando il sostare di altri passanti e il senso di importanza che invadeva i miei fratellini, immaginai che anche io dovevo essere stata così davanti all’altrui curiosità: vanitosa e fiera. Forse avevo guardato anch’io la rara gente di passaggio reclinando la testa di lato, con sorrisini smorfiosi, risatine sciocchine.
Forse avevo levigato le mie pallottole di fango con cura inusuale, in un eccesso di protagonismo avevo gettato con fare teatrale la pallottola lontano, giù nel prato. Chissà se la signora lo aveva capito che quel lancio era stato qualcosa di inedito, inventato per fare colpo su di lei? 
Poi la signora se ne venne fuori con una esclamazione assurda: “Poveri bambini!” ci commiserò. Non credo di avere pensato fosse una spia, che fosse salita alla nostra borgata per esaminarci come insetti da laboratorio o per scorgere in noi segni di trivialità, qualcosa di strano, di sbagliato o di sospetto. Non allora, non ancora: avevo solo quattro anni. Tuttavia ricordo la sensazione improvvisa di una minaccia. Accadde quando la signora rimproverò mia madre, la chiamò per nome, come se la conoscesse, “Non devi lasciarli pasticciare con la terra”, fece un passo di troppo verso noi. In un attimo mia madre fu in piedi a fare da barriera tra noi bambini e l’estranea. Noi tre ci tirammo su da terra, ci aggrappammo alla sua veste, schierati al suo fianco d’istinto. Arrabbiati come lei. Offesi come lei. Rigidi. Gli occhi severi puntati sull’estranea.
“Guarda che gli vengono i vermi”, aveva proseguito la signora.
Stretta alle gambe di mia madre sentivo i suoi muscoli contrarsi.
“Guarda che io ti ho avvisata. Guarda che se non ci stai attenta ti portano via anche questi bambini.” aveva concluso la signora. Aveva sollevato le spalle. Scuotendo la testa era tornata per la sua strada. Eravamo rimasti a fissarla ostili, zitti e immobili, fino a quando era sparita dietro la curva del sentiero.
“Chi era?” aveva chiesto il futuro impresario. “Chi era?” avevo chiesto io. Nostra madre ci aveva tranquillizzati: “Nessuno” aveva risposto perentoria. 
Più tardi scoppiò il temporale.
Ho nella mente l’immagine di mia madre che sotto una pioggia mista a grandine corre a spezzare un ramo dal nocciolo, ma non è lo stesso temporale; io ho almeno tredici anni, è domenica, giorno della settimana in cui abbiamo il diritto e l’obbligo di venire a trovare i nostri genitori. In teoria. In pratica ho fratelli che quasi non conosco, perché i loro tutori questo impegno non lo rispettano. E nostro padre è così conciliante…! Tanto da fare venire i nervi. Non si lamenta. Non più, da quando diversi anni fa é stato accusato di essere irragionevole, pazzo, irriconoscente: “Un ex legionario, che ha combattuto in Indocina, non può avere voce in capitolo” lo aveva zittito l’assistente sociale di allora facendo centro nel suo senso di colpa, “Certe esperienze incidono sulla lucidità di un individuo”. A riprova di ciò aveva sostenuto che era da irresponsabili fare crescere dei bambini in condizioni rurali da inizio novecento in tempi di grande progresso industriale, espansione di mercato, boom economico. Da lì, dopo essere stato minacciato di non poter più vedere del tutto i suoi figli, si è rassegnato.
Nostra madre è diversa. L’ho vista prendersi a colpi il petto, schiaffeggiarsi il viso, l’ho sentita urlare, piangere e implorare: “Non rrubbatemi i miei bambini non rrubbatemi i miei bambini non rrubbatemi i miei bambini”…, proprio così: “rrubbatemi”, con due erre e due bi. Ma tanto la gente del suo dolore non se ne cura. Gli estranei preferiscono pensare che non sia in grado di capire niente. In lei vedono solo la signora rozza e goffa che ignora il valore dei convenevoli, l’analfabeta che sbaglia le doppie, gli articoli, i termini e confonde i tempi dei verbi, l’ignorante che mette al mondo un figlio dietro l’altro senza un perché. Deve essere così; altrimenti non mi spiego perché, di fronte alla sua disperazione e davanti a noi, guardandoci con aria contrita, cercando un’occhiata d’intesa che da me non ricevono mai, se ne escono con quelle parole così sgradevoli… “Ma che vergogna… fare certe scenate con i bambini presenti…!” La cosa che più mi fa male è che, sebbene mi venga voglia di spaccare la faccia a questi presuntuosi, anche io in quei momenti mi vergogno di lei, perché nella sua incapacità di fingere mia madre rafforza in loro il sospetto di non essere in grado di controllare le situazioni e di conseguenza di non essere una buona madre. 
Alcuni dei miei fratelli quando vengono portati a casa scrutano nostra madre in cerca dei segni della sua presunta diversità: “Se si tagliasse i capelli… se mettesse vestiti meno colorati… Almeno non sembrerebbe una zingara” bisbigliano. La trattano con la stessa superiorità degli estranei, rinnegano i ruoli dei nostri genitori chiamandoli per nome con sostenuto distacco invece che papà e mamma, guardano l’abitazione storcendo il naso, “che schifo” dicono, e pure a noi che anziché stare in affidamento famigliare alloggiamo in un convitto a momenti ci tengono a distanza, proprio come fanno i nostri compagni di scuola, “non mi toccare che mi sporchi” si scansano schizzinosi, come fossimo appestati, e non so se sia maggiore la nostra sofferenza o la loro: loro sono soli ad affrontare il mondo degli altri, noi che stiamo in convitto ci sorreggiamo a vicenda. Mi chiedo se non sia proprio per questo che li hanno isolati da noi sparpagliandoli qua e là, per evitare coalizioni e vincerne le resistenze con maggiore facilità, perché se nel corso delle loro sperimentazioni, senza mai chiederci un parere, a un dato momento avevano deciso di riunirci, maschi e femmine, in un unico istituto, tempo un anno avevano ricombinato, scombussolato tutto per l’ennesima volta. Anche le mie due sorelle maggiori, che avevo conosciuto in un collegio cattolico femminile, con le quali stavamo costruendo un rapporto se non proprio confidenziale quanto meno affettuoso, le avevano di nuovo trasferite altrove.
Comunque sia, anche noi che stiamo in convitto li insultiamo, perché se delle opinioni dei nostri compagni di scuola non ce ne frega niente, che i nostri fratellini vogliano disconoscere le loro origini per somigliare a dei pappagalli qualunque ci da fastidio, li scherniamo chiamandoli “Lagna, civilizzato, smorfioso, femminuccia, impedito”, gli sputiamo addosso, li mettiamo sull’avviso: “Se scoppia una guerra mondiale, una catastrofe, un terremoto, il diluvio universale, tu, che di tutto quello che ci hanno insegnato i nostri genitori non ricordi niente, che non sai neanche distinguere una amanite falloide da un porcino, tu sei spacciato”. A dire il vero io non sputo addosso a nessuno, non li canzono mai, ne nessuno osa farlo con me. Fa eccezione il futuro impresario edile, con lui ci conosciamo meglio, con lui mi lascio andare a fanciulleschi battibecchi, con tanto di reciproco “vaffanculo” a concludere, perché il nostro rapporto non ha più nulla da perdere. Abbiamo smesso di essere amici già alcuni anni fa. Per la millesima volta lui mi aveva dato consigli su come comportarmi per evitare di suscitare il malanimo del direttore del convitto. – In questo somigliavo a mia madre: non ero capace di fingere simpatia per persone che avrei preferito fossero nessuno; non m’importava di sorridere come una scimmia ammaestrata per suscitare la benevolenza del direttore! Un signore dispotico e manesco a cui guardavo con severità –. Quel giorno ero più indignata del solito. Avevo dato uno spintone a mio fratello. Lui aveva dato uno spintone a me. Ci eravamo guardati sgomenti; sino a quel momento non ci eravamo mai torti un capello. Ero stata io a rifiutare di fare la pace.
Io ho messo a punto alcune strategie punitive tutte mie, cattive, di una perfidia che spaventa persino me, al fine di ferire e dissuadere i miei fratelli dal crescere impregnati di boria verso i poveri, gli afflitti e gli eccentrici.
Le uso con parsimonia, per evitare di non essere più presa sul serio. Un paio di volte, con tono suadente ho condotto l’arrogante e l’ingiuriata di turno lontano da occhi indiscreti – che a mio padre, vedendoci, non saltasse in mente di immischiarsi –, “Venite che vi faccio vedere una cosa bellissima…” Ho messo i due faccia a faccia, li ho bloccati trattenendoli per le braccia. Non che li tenessi davvero stretti, li malmenassi o usassi altre forme di vera violenza fisica. Nemmeno li ho minacciati di percosse. Potrebbero liberarsi della mia stretta con una scrollata di spalle, andarsene via e mandarmi a quel paese nella totale incolumità, tuttavia non lo fanno.
“Digli che è uno stupido” ho ordinato all’ingiuriata. In una occasione questa mi ha guardata storto: “Non me ne importa se mi tratta male. Io non voglio diventare cattiva” mi ha detto. “Non vi mollo fino a che non glielo dici” ho insistito. Loro hanno tenuto duro per un po’, ma io sono stata più paziente. Neanche quando l’arrogante si è messo a chiedere scusa ho mollato la presa. Non mi sono lasciata commuovere dalle sue lacrime. Entrambe le volte ho ottenuto quello che volevo. Altre volte, con la scusa di andare a raccogliere more o a cercare funghi, li convinco a seguirmi nei boschi, che loro conoscono a malapena. “Non so più dove ci troviamo” dico a tempo debito, “ci siamo persi”. Li faccio girovagare senza un’apparente meta pronunciando frasi desolanti “Non credo che ritroveremo più la strada di casa. Questa volta i nostri genitori non li rivedremo mai più. Li abbiamo persi per davvero. Per sempre. E se un giorno li rincontreremo saranno loro a non volerci. Non ci riconosceranno. Non si ricorderanno più di noi. Saremo costretti a passare il resto della nostra vita come veri selvaggi. La vita dei selvaggi è pericolosa. Dovremo mangiare erbe selvatiche spesso sconosciute. In autunno sarà lotta all’ultimo sangue per accaparrarci l’ultima bacca dell’arbusto. Ma d’altra parte chi la mangerà potrebbe non sopravvivere comunque. La possibilità di morire avvelenati è alta. Morire avvelenati è molto brutto, si sta molto male. I più deboli, quelli che hanno meno confidenza con alberi, dirupi e animali selvatici moriranno per primi, rompendosi una gamba o sbranati dai lupi”. Una volta sono andata avanti su questa solfa fino a che una sorellina non è scoppiata in lacrime. 

Mia madre, sotto pioggia e grandine, in mezzo al cortile traccia dei segni sulla terra bagnata con il ramo di nocciolo. Mio padre sotto il balcone di casa la chiama: “Piccinina vieni al coperto”.
Mia madre si fa il segno della croce. “Piccinina…” insiste mio padre, “lascia perdere, sono solo superstizioni!”
“Non ti interessare di cose che non capisci” si risente mia madre. Mio padre sorride, “OK capo! Fai le tue magie” le dice, mi rivolge un occhiolino complice, mi da una gomitata e mi sussurra: “Diglielo tu al mago di non stare li a bagnarsi”.
Mia madre spezza il ramo in due. Dispone i legnetti a terra, incrociati l’uno sull’altro. “Che cosa fai?” domando. “Allontano la tempesta” risponde. 
D’un tratto mi ero ricordata di avere già visto mia madre alle prese con ramoscelli e segni della croce. Per un attimo, nell’illusione di poter trasformare il mio presente, avevo desiderato di inventare un passato differente. Avevo deciso di immaginare che non aveva piovuto, non quel giorno in cui la signora dei vermi aveva voluto impressionarci. Quella volta mia madre aveva strappato rami, tracciato segni e pregato nel tentativo di scongiurare un altro genere di tempesta, nella speranza che le parole della iettatrice non si traducessero in realtà e gli assistenti sociali non ci portassero in collegio.
Nel mio ricordo immaginario mia madre aveva compiuto il suo rituale proprio davanti all’estranea. L’estranea aveva sorriso, ma non con la tenerezza di mio padre, con sufficienza. A quel punto un unico bizzarro fulmine, inaspettato nel cielo terso, era precipitato sulla crudele creatura uccidendola sul colpo.

“Io non mi ricordo di quando tu vivevi a casa” mi ha detto cane lupo,“Io non ricordo quasi niente della nostra infanzia. A volte penso che i ricordi di voi più grandi siano frutto della vostra immaginazione”.
Cane lupo dice di non avere ricordi, tuttavia, ogni volta che, nel tentativo di trovare un senso al mio presente, racconto qualche episodio del passato, interviene a riferire dettagli, suggerire atmosfere, apportare modifiche. 
“Ti ricordi la vecchia topolino vicino alla casa dei fantasmi?” ho chiesto. Forse a voce troppo bassa. Devo essergli sembrata in vena di svelare chissà quale improbabile mistero. “I vecchi rustici abbandonati sono tutti chiamati case dei fantasmi” mi ha spiegato come si trattasse di dissuadere un visionario, proprio lui che crede a qualcosa di così imperscrutabile come la reincarnazione!
“Ma di vecchie automobili abbandonate in mezzo al bosco c’era solo lei” insisto, “la vecchia topolino blu… quella che abbiamo preso a bastonate…”
“Ma si!” si sorprende, “certo che la ricordo. Non era blu era verde. Eravamo così esaltati che l’abbiamo distrutta”. Mi scruta aggrottato: “Ma tu che ne sai che l’abbiamo sfasciata? Tu non c’eri”. Posta questa premessa cane lupo mi racconta la sua versione: “La domenica successiva papi era furibondo. Ci ha mandati a raccogliere i vetri infranti e i pezzi di carrozzeria sparpagliati tutto intorno. Una cosa senza senso… c’era tanta di quell’ erba… alta… Qualcuno in settimana era passato a riferirgli di averci visti fare i teppisti.” “Io c’ero” lo interrompo, “non abbiamo fatto a pezzi la carrozzeria”. Cane lupo è perplesso, “Tu non c’eri. Non mi ricordo di te. Forse lo hai sentito raccontare da qualcuno di noi, col tempo hai creduto di esserci stata anche tu, hai immaginato che fosse un ricordo tuo”.
“Io c’ero”, ripeto, “Da come la ricordi tu ne usciamo come degli squilibrati dalla forza smisurata. Invece abbiamo solo rotto i vetri. Eravamo andati lì a raccogliere castagne. Era autunno. L’erba non era alta. La poca che c’era era secca”.

D’un tratto rivedo cane lupo bambino. Ha due anni e urla che sembra una sirena dei pompieri. Mia madre dal mezzo del cortile, un ramoscello tra le mani, sotto una rumorosa pioggia grida: “Non spaventate il piccolo. Smettetela di fare i cattivi”. Io e il futuro impresario edile abbiamo raccolto lombrichi, abbiamo raggiunto cane lupo sotto al balcone. “Guarda che ti vengono i vermi… ti vengono i vermi… ti vengono i vermi…” cantileniamo intanto che tiriamo fuori le mani dal secchiello di alluminio e gettiamo lombrichi addosso a cane lupo.

“Sei tu quello che ha una fervida immaginazione” dico, “Tu che pensi di avere paura dei vermi perché ti ricordi di averli visti divorarti nella tua precedente vita di cane. Come puoi pensare che i tuoi ricordi siano più affidabili dei miei?”
“Cosa? Io non ho mai detto che mi ricordo di essere stato un cane!” si acciglia mio fratello, “Se fosse un ricordo allora potrei anche sbagliare. Per questo so che è successo davvero, che ho vissuto nelle sembianze di un cane lupo: non è un ricordo, è una cosa che so”.
bernadetta ghigo 

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