Work to work | |
WORK TO WORK Note critiche Work to work è un progetto che, a partire dal ciclo sul paesaggio industriale di Cecilia Ravera Oneto, intende esplorare la creatività contemporanea appellandosi ai molti codici visivi che transitano nell’immaginario attuale. Work to work è un titolo con almeno una duplice valenza: work allude a lavoro in quanto opera ma contiene in se proprio l’idea del lavoro a cui fanno riferimento le fabbriche della Oneto. Il termine fabbrica implica del resto anch’esso una duplice accezione: edificio in senso stretto ma anche luogo del lavoro, delle catene di montaggio. L’approdo tardivo dell’Italia alla rivoluzione industriale è cosa nota e, guardando all’oggi, anche le fabbriche sono altra cosa con l’automazione imperante e il terziario ormai in fieri e i nuovi lavori in una società capitalistica precarizzata in un divenire incerto… Cecilia Ravera Oneto vede mutare il paesaggio ligure e ne registra il cambiamento, con un fare pittorico dapprima ancora intriso di superfici post-impressioniste con echi futuristi per poi approdare al suo personale sguardo espressionista. Partendo da qui, dalla carrellata di immagini dell’artista vi invitiamo a realizzare/produrre/concepire il vostro work. (estratto dal testo Incipit inviato agli artisti in aprile/maggio 2010) Un’opera d’Arte, per definizione, è un (s)oggetto aperto. La grandezza di un’opera d’arte, sta nella sua possibilità di continuare a scaturire interpretazioni. Un’opera d’arte è frutto, comunque, di un lavoro e la profezia di Sorel1 non si è certo avverata quando sosteneva che “Il lavoro diverrà creazione artistica, esso deve scaturire dall’entusiasmo dell’operaio. L’arte è l’anticipazione dell’alta produzione”. Ed è di una sorprendente lucidità, come sempre, Umberto Galimberti quando dice:- È evidente che più la società si fa tecnologica, più si riducono i posti di lavoro. E paradossalmente quello che è sempre stato il sogno più antico dell’uomo: la liberazione dal lavoro si sta trasformando in un incubo2. Arte, opere, lavoro. Un occhio puntato sulla contemporaneità, sullo sguardo altro che solo gli artisti possono offrire. Ognuno dei trenta invitati ha avuto modo di riflettere realizzare/produrre/concepire il proprio work. L’opera di Cecilia Ravera Oneto, come centro propulsore, ha scatenato reazioni inedite, non soggette ai principi elementari della Fisica Dinamica (ad ogni azione corrisponde sempre una reazione uguale e contraria) nell’ambito della creatività i principi sono decisamente più aleatori. Si possono scegliere molti modi di entrare in questo discorso ed ogni artista ha elaborato il suo. Rédha Sbaihi ci porta dentro al cuore del problema con il suo labirinto di grano saraceno; industrializza la natura realizzando un soffocante percorso obbligato che implica, inevitabilmente, tante interpretazioni e, coinvolgendoci direttamente nell’esperienza dell’opera, ce le fa vivere. Javier Balmaseda, con la sua serie di disegni a pastello, riflette sul dilemma di un mondo di auto e strade proponendoci giocosamente le sue soluzioni. Altri guardano alle fabbriche, agli operai, ad un mondo che per molti versi non esiste più in questi termini e che però nel presente perpetua la sua memoria. Andrea Nisbet dipinge le sue Fabbriche cogliendole in un degrado metafisico stravolgendone le cromie. Simona Palmieri registra sulla pelle il paesaggio industriale e si potrebbe dire, giocando con le parole, che interiorizza in superficie divenendo filtro vivente della mutazione in corso. Martha Nieuwenhuijs dipinge La scultura, monumento alla modernità congelata nell’immagine della ruota e il tutto lo fa con disincantata poesia quasi fiabesca. Gian Luigi Braggio, Francesco Muro e Alessandra Turolla a loro modo, distintamente, riflettono sulla caducità, obsolescenza, decadenza di questo mondo. Ognuno di loro coglie la mutazione osservandola nel suo perpetuarsi, quasi senza volontà di giudizio, da osservatori imparziali stupiti e catturati dalla morte delle cose colgono lo stato ultimo con i loro mezzi estetici. Gian Carlo Giordano fotografa espressivamente l’Operaio in un flusso cromatico pastoso e accalorato, senza compiacimenti coglie il quotidiano celebrandolo nella sua durezza. Charles Jean Paul, nella sua fotografia radiografata, grida sottovoce il suo appello alla Generazione da salvare in perenne attesa di un possibile (ma improbabile) riscatto. C’è chi sceglie di lavorare sul suo confine personale, elaborando un’installazione di pregiati ritratti della memoria; è il caso di Marina Buratti che, nella sua Storia di Teresa maglierista, ricuce il tempo in un cortocircuito familiare. Bernadetta Ghigo, con la sua infinita teoria di piccole tele dipinte su finta pelle, precipita nel suo personale Ricordare riflettendo sfocatamente sulla memoria della natura, prima ancora che la cultura intervenga a classificarla. Alex Astegiano con Twins viaggia sul bordo archetipico del doppio e con l’uovo, che campeggia in primo piano (con il suo profondo contenuto simbolico), ci offre una rivisitazione del processo della creazione. Tere Grindatto propone il suo lavoro con apparente serialità, raccogliendo su uno stender le sue creazioni alchemiche; allestisce il suo commercio di sensibilità contrapponendolo con la sua unicità, all’eterno diffuso consumismo. L’Happy days di Marco Lampis è il pronostico anacronistico di un’Italia industriosa che lui tratta con un fare pseudo-fotografico preannunciando il deserto del futuro. Daniela Bozzetto scruta con pupille allo zoom la perfezione tecnologica, la sua arida purezza; osserva distaccata restituendoci l’astrazione-realistica di un paesaggio antropizzato. Censorship /self-censorship è un quadro vivente di cui siamo tutti noi gli spettatori inconsapevoli; Chen Li propone una meta-riflessione sul lavoro, anche quello degli artisti, rivendicando una condizione inevitabile per molti versi… nel mondo dell’apparire tutto appare nascosto. Alone. Impossibility to transmit di Natasa Korosec è una riflessione sulla condizione post-moderna, sull’afasia contemporanea ispirato dai pensieri di Zigmunt Barman3 . Filiera di Giuliana Marchesa è un oggetto arido, un elogio dell’imprecisione che conserva in se la serialità industriale, piegandola ai difetti dell’esistenza. Con la sua serie di Superstiti Marina Pepino recupera la poetica dell’ objet trouvé, dal mare ligure recupera i residui (forse del motore di un’imbarcazione) e li fa vivere dai suoi desolati e poetici esseri naufragati nella civiltà contemporanea. Elena Clari dissolve nei pigmenti biancastri la memoria di Architetture ormai divenute Fantasma, dove l’eco della modernità è quasi afono, un anelito post-moderno proiettato sul presente. Con una neppur troppo velata ironia, Tiziano Ettorre propone il suo Maloch industriale; evoca lo spirito malvagio, che divampa fumoso dalla fabbrica, come anelito di una salvezza (forse) futura. Caterina Bruno e Angela Sepe Novara, con i loro acquarelli, ricordano le fabbriche in una dimensione che sfiora l’astrazione storica delineando un’omaggio implicito ed esplicito a Cecilia Ravera Oneto. Sara Grazio crea uno Tzunami visivo accattivante e sensuale, come metafora del presente; cattura la percezione, alludendo alla transitorietà attuale, con strumenti contemporanei. Marco il cercatore di frequenze allude allo spaesamento contemporaneo e, con una ironica messinscena, Pietro Mancini parla dell’uomo avulso dalla realtà che vive. Enza Miglietta recupera apparentemente le memorie dei muri urbani, stratificando il vissuto in un racconto visivo. Con le Porte Regali è la luce la protagonista assoluta dell’opera di Martina Dinato, genera lo spazio rendendolo palpabile in una dimensione che è fisica e metafisica al contempo. Mirella Sannazzaro fissa aleatoriamente le sue immagini in un’installazione precaria, coniugando natura e cultura indissolubilmente. La performance VGLnr3 (Arbeit macht frei) di Daniele Ferrarazzo è un’operosa azione che nel compiersi realizza l’opera teatralizzando il fare come moderna schiavitù. TrasformAzioniTeatrali, del gruppo Voci erranti, ci coinvolge in un percorso che dal suono e dal gesto inanimato giunge a strutturarsi in gesto vitale consapevole. Sono passati alcuni mesi, da quando questo progetto si è avviato. Mesi di contatti, parole, emozioni e in questa avventura sono state coinvolte altre realtà museali della città di Pinerolo. Il SOMS-Museo Storico del Mutuo Soccorso e il Museo Civico Etnografico ospiteranno le opere di alcuni artisti che interagiranno con gli spazi museali: Rédha Sbaihi con le sue gomme intrecciate duetta tra design e scultura; Tere Grindatto impalpabile mette in atto una sua trasform-azione visiva, Chen Li propone il suo giardino frutto della sua ultima esperienza nel quartiere Scampia di Napoli, infine Marina Pepino recupera a nuova vita i gorin (vimine) restituendoli come scultura viva, modernamente primitiva. Con la docente concertista Stefania Salvai proporremo una lezione/incontro sul Futurismo tra musica e arti visive. L’avventura di Work to Work è ora cosa autonoma, viva e come si usa spesso dire, parafrasando malamente un detto, il giudizio ai presenti. Marco Filippa Vice-Presidene di En Plein Air-arte contemporanea. Docente di Discipline Grafico-Pubblicitarie e Storia dell’Arte 1. Georges Eugène Sorel (Cherbourg,1847–Boulogne-sur-Seine, 1922) è stato un filosofo, sociologo e pensatore francese, teorico del sindacalismo rivoluzionario. 2. Umberto Galimberti (Monza, 1942) è un filosofo, psicoanalista e docente universitario italiano. 3. Zygmunt Bauman (Poznan, 1925) è un sociologo e filosofo polacco di origini ebraico-polacche. Dal 1971 al 1990 è stato professore di Sociologia all’Università di Leeds. Sul finire degli anni ottanta, si è guadagnato una certa fama grazie ai suoi studi riguardanti la connessione tra la cultura della modernità e il totalitarismo, in particolar modo Il nazionalsocialismo e l’Olocausto. |
|
testi presentazione | |
esposizioni dal'94 | |
NEWS | |
enpleinair |