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Maria
Vittoria Berti |
Sono anni che mi basta azionare un pulsante per trovarmi nello spazio infinito a scegliere una direzione. Sul mio tavolo c’è una comoda astronave. Sedici anni di navigazione web contro trenta di non navigazione, eppure oggi non potrei farne a meno. Addiction? Depauperamento intellettuale? Perdita di veri valori sociali e di comunicazione? Una volta cercai di spiegare ad una persona che il web non è lo stesso per tutti, ma nemmeno il mondo reale lo è. Si può uscire una sera per andare a teatro od a puttane. La scelta di una ipotesi non è fatta dal mondo, contenitore ecumenico, ma da chi esce di casa. Se per vivere nella realtà ci vuole una struttura caratteriale e culturale che ci permette di seguire alcune direzioni piuttosto che altre, lo stesso è per il web. Provo una bruciante antipatia per chi demonizza ogni cosa in nome di chissà quale purezza perduta. Non sopporto quelli che dicono che una volta era meglio, anche perché non mi risulta proprio, dati alla mano. Mi infastidiscono persino i prodotti biologici e le ideologie new age. Sono e voglio essere cittadina contemporanea del mondo, che non è così perché un misterioso alieno lo ha edificato in una notte, non lo abbiamo trovato al risveglio, è prodotto umano, e noi siamo gli umani. Nonostante questo, ho anche un legame forte con la cultura tradizionale, fatta di serietà, impegno e sacrificio. Ma essa è base per nuovi orizzonti, non impedimento. Non è una muraglia fortificata dietro cui sentirmi sicura, ed è proprio grazie a quel poco di nozioni ragionate che ho, se capisco che bisogna mollare gli ormeggi, lasciarsi portare avanti. Lo sguardo al faro serva da punto di riferimento per navigare, e non ci si leghino lunghe corde cui aggrapparsi. Siamo o non siamo figli di Colombo? Dobbiamo lasciarci modificare, non opporre resistenza. Non è facile per me, imbevuta di nozioni antiche, leggere scritti di giovani che introducono nell’alfabeto italiano lettere che non ci sono, la “k” per esempio, al posto del “ch”. Ma conosco il mutamento delle cose, so che una contrazione grammaticale è normale ed inevitabile nell’evoluzione di una lingua. So che una tastiera sostituirà la Bic dal tappo masticato. Mi disturba enormemente leggere però la “k” davanti alla “a” od alla “o” od alla “u”. Di quella mutazione non ci sarebbe alcun motivo, ma accade per ignoranza di base. Allora, per proprietà transitiva, bisogna dire che è l’ignoranza ad infastidirmi, quei paraocchi che generano ideologie inespugnabili, che impediscono la libera osservazione critica, che forniscono pericolose deviazioni. Giorni fa, ad una conferenza su due fotografi di spicco nel panorama mondiale, l’eminente relatrice ha esordito dicendo che si trattava di “vera” fotografia, “niente digitale”, cito testualmente. Ed in quel “niente digitale” si esprimeva un fastidio, un compiaciuto rifiuto. Di certo la signora non naviga sul web se non utilizzandolo come un postino od un taxi, e non degna di alcuna considerazione le sue infinite possibilità. Ma ha la pretesa di fare cultura, cultura vera intende lei. Io invece vorrei sapere quale sia la cultura. Ho almeno il dubbio. Sono uno storico dell’arte (come lei, ma molto meno quotata), e credo nella tecnologia e nel web. A patto che davvero lo si usi come nuovo mezzo e non per duplicare ciò che si potrebbe fare altrimenti in modo consueto e magari anche più facile. Ho partecipato a progetti, curato mostre virtuali, presenziato, in forma di avatar alato, a vernissage on line. Certo, i contenuti cui noi siamo abituati, fatti soprattutto di parole e di scritti, in ambito virtuale si riducono al minimo necessario, ma si ampliano invece contenuti sensoriali differenti, fruibili attraverso nuovi pori che dobbiamo imparare a tenere aperti. Gli artisti sono più bravi in questo. Alcuni lo hanno capito da subito, il web avrebbe potuto creare nuovi orizzonti e stravolgere velocemente molte regole. L’arte visiva è privilegiata. E’ immagine, come la natura del virtuale, mentre altre forme d’arte non possono che replicarsi ed adattarsi. Ed essa è inoltre da sempre la creazione di ambienti metareali, inventati, impossibili o sognati, lontani, immaginati, e si può andare avanti all’infinito. Il web ha fornito ad essa un reattore per viaggi prima inimmaginabili ma, come per la “k” di cui sopra, la rotta va razionalizzata sin dai suoi intenti iniziali. Chi riesce in questo viaggia, chi non lo intende perde tempo. In fondo è sempre stato così, bisogna avere qualcosa da dire, un progetto, ancor prima della tecnica con la quale dire. Arte visiva e virtuale sono due ambienti che si appagano l’un l’altro. Il valore comunicativo dell’immagine, potenziato dal mezzo attraverso cui si diffonde, raggiunge oggi anche utenti inconsapevoli, parla cioè anche a quelli che nemmeno si rendono conto di ascoltare. E’ un gioco riproduttivo, l’inseminazione del mondo che ha occhi. E, se oggi gli occhi sono sul web, esso dimostra allora di essere il mezzo più fecondante in assoluto. Nemmeno Zeus riuscì in un numero così alto di fecondazioni. Il virtuale produce una serie innumerevole di figli-pensiero, che a loro volta generano nuovi figli-pensiero, moltiplicandosi all’infinito. I figli-pensiero sono immateriali, godono allo stesso tempo dell’astrattezza della carne e dell’esistenza dell’idea, sono dunque pura possibilità senza corpo. Liberandosi della pesantezza della materia, tutto fluttua così nell’etere, costruisce e distrugge mondi, si teletrasporta da un capo all’altro di una galassia immaginaria, si traveste, si inventa, si stravolge. E, grazie alla velocità con cui le informazioni ed i contatti avvengono via internet, il mezzo si offre anche e soprattutto, al suo uso più facile. Una volta un pittore mi disse: “in un mondo di ciechi non dipingerebbe nessuno”. L’arte ha bisogno di essere vista, gratificata dagli sguardi. Raggiungerne il più possibile è banalmente lo scopo più perseguito sul web, diffondersi, propagarsi, farsi visibile, esistere e, perché no (anzi, soprattutto) sperare di ottenere la considerazione di qualche gallerista, critico o collezionista senza dover attendere, come un tempo, che essi si presentino alla porta dello studio. E’ la legge del mercato, non è più il compratore che va al prodotto, ma il prodotto al compratore, e più probabili compratori si raggiungono più sono le possibilità di farcela. La vetrina My Space è l’apoteosi di questo concetto facilissimo. Si perde poesia, ma si guadagna realismo. Si rischia di rendere l’arte merce banale, pare terribile, ma se questo è, rimane a noi che facciamo l’”arduo” mestiere il compito di selezionarla e riportarla per quanto possibile nel suo ambito aurato. Non si può contrastare la corrente. Il mare è forte e la corrente è la spinta dell’uomo. Sempre per il motivo che il mondo non è il paradiso creato in sette giorni da un’entità estranea, ma una costruzione tutta umana. Io sono grata al mondo immateriale di avermi fatto conoscere opere di artisti che non avrei mai visto altrimenti, sono grata al web che confonde le carte della realtà con quelle dell’irrealtà, che offre speculazioni filosofiche infinite, che mi permette di essere ovunque ed allo stesso tempo nella mia casa. E’ sempre chi esce la sera che decide se andare a teatro o andare a puttane. Maria Vittoria Berti Aprile 2011 |
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