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#SAGRATIANIMATI mese di Giugno |
APERTURA STRAORDINARIA NELL'AMBITO DELLA
NOTTE DELLE
MUSE SABATO 27 MAGGIO 2017 |
#PINEROLO SI RACCONTA |
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Religiosità popolare e arte
contemporanea, devozione antica e cultura moderna. |
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ARTISTI |
Velio Aresu Sassari, Lidia Bachis
Roma, Alessandra Baldoni Perugia, |
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È’ François Nasica ad iniziare questo percorso col suo telo di juta dipinta. Un inizio che potremmo definire “preistorico” di una mostra che va evolvendosi nei suoi più disparati significati, tutti volti a rappresentare i diversi aspetti con cui la società vive la fede, non necessariamente in Dio, ma in qualcosa di buono per cui ringraziare. E in questo percorso sono proprio le linee nere e grigie stese di getto dall’artista francese sul materiale grezzo a disegnare tratti umani dai volti ululanti e intenti in un rituale magico che trascina la memoria ai primi graffiti realizzati dall’uomo . Un po’ astratte , un po’ cubiste, la violenza della resa grafica delinea carattere e vivacità di queste figure e ne proietta in primo piano la frenetica gestualità con cui si genera la vita. Eccoli i due individui all’origine del mondo. Loro dalle sembianze di fantocci, condividono fuori dall’eden uno spazio comune interrotto solo dall’ azzurro del cielo che li sovrasta. E di anime racconta anche il pinerolese Marco Da Rold, che con una tecnica mista su fotografia (scattata con un drone), stampata su forex e ridipinta, volge la sua opera alla spiritualità tibetana. Colto riferimento, quello al Libro dei Morti, da cui il titolo “Bardo Thodol – Passaggio”, è la storia del viaggio di uno spirito nell’intervallo di tempo che precede la rinascita. Così si erge dalla propria carne colui che da morente spera di ascendere a quello stadio di illuminazione auspicata dal buddhismo tibetano. Così lascia la realtà, vissuta fino a pochi istanti prima, assistendo alla sua lenta trasformazione: macchine, alberi, strade vanno perdendo le sembianze, per mostrarsi alla stregua di macchie di colore. A dominare l’intera composizione è il verde… Speranza. Vere e proprie sculture in fil di ferro personificano l’istallazione di Gerardo Rosato, artista torinese. Accogliendo il visitatore già fuori la chiesa, lo accompagnano fin dentro, mostrandosi ora adagiate in terra, tra il dentro e il fuori di una delle cappelle di sinistra, ora sospese oltre gli sguardi di ciascuno. “Resilienza” quello stato di forza, insito nell’essere umano, che gli permette di ergersi e superare periodi, fasi, situazioni difficoltose, perfino traumatiche. Se nel mito il concetto si riassume nella figura della fenice – che rinasce dalle proprie ceneri –, Rosato sceglie il ferro, materiale capace di subire urti senza rompersi. Certo il fil di ferro può piegarsi, ma quale individuo non si è mai piegato al cospetto della vita? Pulita, nella sua semplicità geometrica, la rappresentazione, in prevalenza ad acquerello, di un percorso che partendo dall’occhio dell’artista, anch’essa pinerolese, Sabina Villa, attraversa verde che sa di pace, e paesaggi sereni. Non è dato sapere la meta, si perde oltre l’orizzonte, ma lì, nella lussureggiante raffigurazione di un’amena Camargue, una scritta a matita scende dal cielo e campeggia su una sezione del foglio lasciato vergine: “Per grazia ricevuta”, “Sulla strada (on the road)” Anna Maria Colace interpreta con le sue “Biforcazioni” diversi aspetti della religiosità popolare e delle tradizioni territoriali. Accostati sui diversi pannelli fotografici, in una pensata sovrapposizione, più scorci raffiguranti statue di santi, manifestazioni cultuali, scene di vita quotidiana, volti. Sono storie, quelle legate alla credenza, che urlano dal loro bianco e nero mordace una fede insita nell’essere umano ed estrapolata, come attraverso le facce di un prisma, dall’artista torinese. Due volti, la tenerezza di due sguardi, ammutoliscono lo spettatore. A guidarlo alla volta di una soggettiva comprensione i versi di una poesia che si fa preghiera. In “Genesis” la maternità è al contempo benedizione e condanna. Voglia di perdersi e di ritrovarsi. Sorride la figura di donna della riminese Veronica Bronzetti: come una Madonna col suo bambino, Madre prima che figlia. Scruta colui che viene per ammirarla. Lei sa, conosce. Lei, colpita da una luce che ne risalta l’espressione, emerge dal buio dello sfondo. Loro, madre e figlio, il cui incarnato morbido, di una concretezza disarmante, contrasta con l’antica tecnica dell’acquaforte, rapiscono i pensieri e scuotono le anime di chi li osserva. Un gioco intrecciato di riferimenti letterari ed elementi fiabeschi costituisce la visione fantastica di Luca Storero. I suoi uomini e le sue donne sono cadenti tra lo spazio grafico di una stampa digitale e quello reale di un confessionale in disuso. Diversi gli spunti per chi si ferma ad osservare “Per Grazia differita”: c’è il richiamo ai gironi dell’inferno dantesco, con i peccatori vestiti di rosso in caduta, ma ancora nel quadro. C’è poi l’anima grigia, già arrivata allo Stige, mentre l’icona di una Madonna bizantina col suo bambino è in un luogo così lontano da non accorgersi neanche di quanto accade sotto i suoi occhi, distratti dallo schermo di uno smartphone.C’è la consapevole presenza dei social network che incombono nella società moderna. C’è l’allusione alla perdita del valore dei rapporti umani. Che come un’aura che si dissipa, conduce l’uomo contemporaneo perfino a pregare in differita. C’è, immancabile nell’opera di Storero, l’elemento zoomorfo: qui una sorta di “stregatto” di Alice che, distraendo l’attenzione, stempera la drammaticità del tempo che scorre, mentre l’uomo finisce impotente per precipitare lontano da ogni sorta di fede. Di grande attualità è poi un’altra stampa digitale, questa volta su metallo, esposta all’interno di una cornice nera , lucida e trash. Nera come una crisi economica in cui il nostro paese è arenato da anni. Nera, come la paura di non arrivare a fine mese. Nera, come l’espressione di un ragazzo che, davanti un bancomat, spera nel miracolo di non vedere il proprio conto in rosso. Questa, l’originale trasposizione della tragedia finanziaria dei tempi moderni. Due mani giunte davanti lo sportello della banca il motivo privilegiato della visione tragicomica delle “Orazioni” di Giò Gagliano+Diego Pasqualin, entrambi di Vercelli. “Dove si può vivere”è il titolo di un’ istallazione in bilico tra l’affermazione e la domanda. Tra diversi mondi e la speranza di trovare il proprio posto in uno di questi. Tre scale precarie accostate ad un muro, tre ponti immaginari con il quale oltrepassarlo: luoghi di passaggio, sinonimi e simboli della storia di un popolo reso nomade alla ricerca di una terra su cui restare e costruire aspettative, superando le promesse. Per essere ed esistere. Ronit Dovrat, oggi non più in vita, è l’autrice della scritta in ebraico che traducendo l’omonimo titolo, costituisce il punto di partenza di un’istallazione in bilico tra ombre, significati e speranze. A fianco, una valigetta aperta e ricolma di bigliettini simili a ex-voto. Lì le risposte della gente all’artista: qual è per ognuno il posto dove si può vivere. Forte, cruda e dall’aggressivo simbolismo l’istallazione e l’olio su tela: il “Perdono”, di Marco Lavagetto. Un richiamo a vizi e ai delitti più efferati. Un coltello affilato, dei soldi in una ciotola, una bottiglia di gin, un vistoso anello in una mano che non ha volto e il cui proprietario non ha più anima. Una statua della Madonna col viso coperto. Due mani mozzate, bianche come quelle di un cadavere sembrano uscire dal fondo nero per incombere sullo spettatore. Al centro, le stimmate dei chiodi che attraversarono Cristo sembrano due pupille attonite nel vedere il degradare del mondo. “Alt!”. Che fine ha fatto Dio? Tutt’altro che macabro, il principio creativo che ha portato Erika Lecchi a reinterpretare con l’ausilio dell’acrilico tre crani di animali (una capra, un muflone, un cavallo) e la replica di un cranio umano, disposti in diverse sezioni della mostra. È l’idea della morte ad essere sdrammatizzata. Consapevole che un corpo costituisce la macchina perfetta creata dalla natura, l’artista si oppone al concetto di declino. Lo ricicla attraverso colori, scritte, rappresentazioni grafiche e simboliche. Così, semplici parti di scheletro resuscitano dal loro stadio finale divenendo “The Reaper”, “Pregiudizio”, “Madame”, “Dot”: opere d’arte, ma anche oggetti di design contemporaneo, attuale, vivo. La speranza di un’inversione di rotta da parte dell’uomo verso la natura, gli animali, i propri simili… Tutto ciò che non è stato creato da lui stesso, ma che lui stesso può preservare, curare, amare. D’altronde, recitava il titolo di un celebre film: “Finché c’è vita, c’è speranza”. “The Rendering”, due mani in legno ed alluminio, la scultura che si innalza su un ceppo in legno di fronte l’altare maggiore, offerta al pubblico da Andrea Nisbet di Torre Pellice. Si sfiorano, si intrecciano, sono protese ma non si toccano, cambiano in base alla prospettiva da cui si osservano. Che sia per pregare, per testimoniare una presenza, o per rivolgere un gesto d’affetto, una promessa, per ammonire, due mani sono energia che si scambia attraverso il tatto, più sincero degli occhi. Uno sguardo può mentire, una mano che trema, che suda, che sfiora, che si mostra decisa, non mente. È col gesto che i santi trasposti iconograficamente a riempire pagine, chiese e storie di ogni sorta hanno sempre parlato ai fedeli. Con le mani l’artista comunica al visitatore la sua lucida “interpretazione”. Che poi pregare non è altro che sperare che qualcosa di buono avvenga, mentre le mani sono giunte e l’animo è vulnerabile. Enigmatica e molto intima la fotografia di Alessandra Baldoni di Perugia. Una donna in bianco, abito lungo, come quello di una sposa o di una prima comunione. Capelli sciolti, incolti. Portamento austero. È lì, al centro di una composizione in cui ad apparire sono cumuli di stracci, sedimenti, rifiuti di un mondo che da un principio di virginea primordialità procede vorticosamente verso un progresso che ne sporca il ricordo di quando tutto era calmo e limpido. Davanti a lei, come in uno specchio, l’immagine di un brandello fuoriesce dal cumulo e ne riflette il decadimento. Un processo temporale che avviene simultaneamente allo sguardo di chi è intento ad indagare la scena. Solo il cielo è lo stesso, ma volge all’imbrunire e lei, lei in bianco nutriva la sua speranza: “Volevo restare come ero, ferma, come il mondo non è mai fermo”. Di terracotta, ferro e resina sono le “Anime” nere di Velio Aresu, che utilizzando le Mamuthones, tipiche maschere del carnevale di Mamoiada in Sardegna, dichiara fiero le sue origini, al di là della Penisola, caricandole di tradizione, di quella sacralità cultuale che lo dissocia dalla realtà; di un mondo che lo affascina e lo schiaccia. Un riferimento al motivo pirandelliano e struggente dell’uno, nessuno e centomila si manifesta in questi volti che nascondono un modo di essere, uno di esistere e uno di mostrarsi, restando in uno stadio che rifiuta definizioni limitative. Pensieri disposti un po’ a schiera, un po’ disordinatamente, si alternano a sprazzi di vuoto. La speranza è intimità che non si lascia intaccare. “Ex voto colorati” costituiscono uno dei pezzi forte della mostra. Collocati nella cappella dove maestosa si erge la tela raffigurante una miniatura della città di Pinerolo, salvata dalla Madonna, sono gli acquerelli a colorare il mondo interiore di Caterina Bruno di Cavour: artista la cui produzione è in continuo divenire, mantenendo, ciononostante, alcuni motivi tipici della sua arte. Fiori variopinti, volti delineati da una ricca flora, cuori che si dispiegano su tutta la superficie del supporto, costituito da fogli di carta incastrati a formare un mosaico di energie positive. È dal cuore centrale che si sviluppa la rappresentazione e l’idea dell’artista: la speranza che sia l’amore la forza a trionfare nel mondo, partendo dalle piccole realtà di ognuno e dando così origine ad un’azione a catena in grado di contaminare di buono l’umanità. Un messaggio reso manifesto anche dall’utilizzo di una bacheca in plexiglas che inglobando l’opera, le permette di riflettersi a tutto tondo, amplificandone l’efficacia. Se il male è una piaga, l’amore può diventare una malattia contagiosa. Stampe Fine Art su Canvas, le fotografie di Domenico Doglio, affisse sulla parete di sinistra della chiesa. “La Camera” e “Il Pomeriggio”, presentano quelle che gli artisti fiamminghi del XV secolo definirebbero l’ambientazione perfetta: due interni, uno più essenziale tanto nei colori, quanto nel mobilio, l’altra decisamente più particolareggiata, ove allo spettatore è mostrata la quotidianità di persone comuni, ragazzi in questo caso, e le loro speranze. Vivendo l’oggi, e sperando in un domani in cui valga la pena vivere, una finestra, aperta in un caso e serrata nell’altro, si offre come interlocutrice d’eccezione di pensieri viaggiatori. Cinque pietre in terracruda costituiscono “Il gioco dei sensi” di Anna Maria Scocozza, artista romana. A risultare fondamentale, qui, è il processo di lavorazione che ha condotto il materiale originale, acqua e fango argilloso, a divenire prodotto finito. Così le pietre debitamente lisciate e lucidate rinascono ricche di qualità tattili, portatrici di nuovi significati. Ma la poesia non sta nella loro perfezione esteriore e visibile a tutti, ma in quella condizione effimera, di fragilità nascosta che invita i nostri sensi a svilupparsi e ad amarle nella loro precarietà, in quella imperfezione primordiale. Nel loro stadio primitivo, ricordano la grandezza della creazione di cui si fanno testimonianza. La speranza sta nel riuscire a dare importanza alle piccole cose, a quelle apparentemente invisibili, prestando attenzione ai silenzi, alle cose sofferte, taciute e non manifestate. È nella piccolezza che la grandezza della percezione, della sensibilità umana, ha la possibilità di esplodere producendo nuove, feconde energie. La visita prosegue, per interrompersi ancora e perdersi nell’intensità pittorica di Elisa Filomena, giovane affermata e promettente talento nel panorama pittorico italiano. “Fertilità” è un’opera che travolge, commuove, irrompe con i suoi significati che si susseguono nei diversi piani di rappresentazione. Se la fertilità è la speranza di tante donne di poter un giorno diventare madri, quella raccontata da quest’olio su tela si riferisce ad un dono, una potenzialità di cui si fa portatrice l’artista che riproducendosi su tela con un simbolico autoritratto, culla in grembo germogli. Un richiamo alla vita, d’artista, un motivo presente in personalità della portata di Klimt: l’albero. Una passione fortissima quella resa dal colore rosso dominante. Una passione sofferta che la inchioda al suo destino, così come inchiodati ad una fitta trama sono i suoi lunghi capelli. Con due occhi, le cui pupille si colorano diversamente, alludendo ad una duplice realtà, una moderna personificazione della Fertilità si veste della propria arte, ma qualcosa manca nel braccio reciso. Sapere cos’è, è una speranza inconsapevole. Ancora un olio su tela presenta la struggente immagine di un angelo dalle vesti cerulee che, ferito al cuore, precipita sul mondo ove macerie di case si stagliano su un fondo grigio fumo. Dal buio luttuoso della tela, emerge la plasticità del corpo dell’alato resa ancora più tangibile dall’abile stesura dei pigmenti. Non ci sono contrasti vivaci, ma tenui nuance perfino in quei bianchi crema il cui candore non stona, ma si armonizza con la grazia elegante della creatura celeste. La semplicità delle forme richiama il primitivismo della pittura russa del primo Novecento, fino a ricordare il mondo onirico di Chagall, reinterpretato in una tragicità favolistica. La scena è costruita tralasciando ogni riferimento geografico o temporale. Così il momento è sempre attuale e nella sua fruizione non si ammettono distrazioni. L’unica scena occupa tutta la superficie dipinta, cristallizzata su un male la cui sorgente resta nascosta allo sguardo,ma il cui intento è ben manifesto: annullare il bene che aleggia sul mondo con uno “Sparo di sicurezza”. È stato colpito, ma l’angelo di Serghej Potapenko non abbassa lo sguardo, il suo spirito non tocca la terra, volge al cielo. Attenzione al dettaglio, dovizia di particolari e un’ammirazione manifesta per la messicana Frida Kalho, si mescolano con una vivida resa anatomica di un torace asessuato. I visi suggeriscono due identità femminee dove a distinguersi nel loro dovizioso grafismo non sono i seni, ma cuore e polmoni. Non ci sono capelli, ma foglie e fiori attraverso cui la linfa si fa testimone dell’affermazione della vita. Un copricapo nasconde i segni di una lotta che non ha intaccato lo spirito,ma lo nutre favorendone la rinascita. Così Lidia Bachis racconta con la tecnica dell’olio su tela “La grazia della fede 1” e “2”. Si concentra sull’eternità dell’attimo il fotografo argentino, attivo a Ferrara, Alejandro Ventura. Nel suo ritratto fotografico l’originale interpretazione di quel famoso “Sebastiano” , martire e poi santo, prima che venisse colpito dalle frecce. Di grande effetto la tensione muscolare che gioca su contrasti di luce, di bianchi e di neri in cui si palesa un’attesa che lo mostra in tutta la sua vulnerabilità; in quella resistenza rassegnata che distingue l’uomo dall’eroe. Il focus, nella sezione che dal collo conduce all’origine del pube, mostra per tre quarti un uomo ligio al sacrificio pur di affermare ciò in cui crede, la sua fede. Questo il Sebastiano moderno che si discosta dall’usuale iconografia del santo morente, svelandosi nell’istante previo. Fu trafitto dalle frecce, ma la grazia lo salvò dalla morte, almeno quella volta. Cuori in ferro e lumini invadono la navata di Sant’Agostino dando forma ai ricordi, e senso all’istallazione di Carla Crosio: “Giusto verso la luce”. Una preghiera per una speranza. Gratitudine per una grazia ricevuta: così mani di tutte le età rimettono i loro cuori nel Padre, nella Madre, nel Figlio e nei Santi protettori. Un lumino, il richiamo alla gestualità e a tradizioni popolari. Memorie di ex-voto, testimoni di una fede a-temporale e sempre attuale per coloro nel cui cuore alberga la fede e in una luce che si accende il desiderio di manifestarla. Margherita Levo Rosemberg firma l’istallazione “Pensieri viaggiatori”. Prediligendo nei suoi lavori l’utilizzo di materiale di recupero come le pellicole radiografiche, queste, oggetto e soggetto della composizione si prestano ad un complesso gioco interpretativo. Da una parte richiamano alla scienza e alle prove analitiche di stati di salute, pensieri pesanti dai quali sfuggire superando un supporto “in negativo”, concentrandosi sulla leggerezza dell’essere altrove, almeno con la mente. Dall’altra immagina pensieri viaggiatori alla stregua di idee vagabondanti che attraverso l’esperienza dei sensi si evolvono in intuizione. Mischiando forme, ascoltando voci, scrutando il mondo prende forma l’arte: connessione diretta tra cuore,mente e mani. Varietà di punti di vista e di chiavi di lettura di concetti mobili in tensione tra la pesantezza della vita e il desiderio di sottrarsene. Lisci, o vorticosi, i pensieri dell’artista nascono dalla realtà lasciandosi trascinare oltre, adagiati come sono su una nuvola bianca, da volatili le cui forme si ricavano dai ritagli delle estremità del telo bianco che le ospita, unitamente a immagini che ricordano isole lontane. In questa dimensione esistono con la speranza di continuare a volare alto. Affascinante nell’enigma che cela, si erge maestosa dal suo blocco in gesso smaltato, color della terra quando sbiadisce divenendo sabbia, “La grande dea” di Tere Grindatto. Ferma temporalmente in un hic et nunc perenne, rievoca un’antica origine primordiale: intatta e perfetta una donna forte nel suo primitivismo attraente. Un richiamo ai miti di una civiltà perduta e alle credenze tramandate nei secoli. Un ringraziamento alla terra, ai suoi frutti, all’origine di ogni essere, dell’esistenza stessa. La Grande dea, la madre del mondo. La fine del percorso espositivo è sigillata dall’artista ferrarese Laura Govoni. “Mettiamoci le scarpe di un altro”: un’opera in progress che muove le basi dall’enciclica di papa Francesco “Laudato Sì” e dal suo invito alla cura della “Casa comune” – il pianeta Terra – , per svilupparsi su 45 metri di carta in cui appaiono abbozzati i contorni di una città fantasma. I bambini, i perfetti fruitori. Tutto intorno scarpe verdi da provare, da indossare per lasciare i se stessi di oggi e ritrovarsi in quelle degli abitanti di un domani da noi lasciato in eredità con tutti i suoi contro. Verdi come l’anima di quell’ambiente che contaminiamo e metaforicamente calpestiamo. Verdi come la speranza di progredire, avanzando responsabilmente, verso un futuro da consegnare ai posteri. Un’educazione ecologica ispirata al rispetto della natura, del mondo e di tutti gli esseri umani e animali che in esso vivono. Un ideale da inseguire dapprima carponi, fino a rincorrerlo stando sulle proprie gambe. Un augurio a prendere in mano dei pennarelli e il domani del mondo per decidere su carta e nelle nostre vite se immaginare spazi desolati o primavere in rinascita. Cinzia Pastore, maggio 2017 |
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