Intifada game, Yael Plat

Yael Plat 

Nel suo viaggio attorno alla dimensione domestica, dopo le sculture è arrivato il video. 
Per l'artista israeliana Yael Plat la casa è luogo mentale e architettonico, insieme 
rifugio e gabbia, uno spazio a parte dove il sé, consapevole o inconsapevole, va in scena. 
La casa è la forma su cui ha ragionato, ridefinito, modellato negli ultimi due anni. 
Nelle case ci si specchia, quasi fossero un ritratto dell'anima, ci si chiude per 
manifestarsi come fuori non si può. Tante case di dimensioni e materiali diversi, 
appese a parete o poste su piedistalli in legno, garza, cemento, paraffina, cartoni 
da imballo, plexiglass. Sono case dipinte, ripiene di cotone, legate con spaghi e corde, 
luminose, ricamate, chiuse da griglie. Diventano scrigni di parole scritte, fotografie, 
lampade accese nel buio, lume per ricordi che non devono sbiadire. Così è la protagonista 
del suo recente video "Behind close doors", una ragazza che vive il suo dramma tutto in 
una stanza, una serie di ore dove presente e passato si intrecciano, reale e sognato 
creano un flusso visivo narrato per immagini, composizioni come quadri. All'inizio è 
la violenza che si scatena, originata dalla sua disperazione esistenziale. Un'azione 
che si riversa sulla stanza come fosse un organismo vivente, travolgendola. 
Litiga con muri e oggetti, beve, spacca. Ogni flash back, ogni tuffo nella memoria, ci 
fa uscire fuori, nel mondo vissuto all'esterno, come quando il profilo di un quartiere 
si riflette sul volto della giovane. La furia lascia il posto alle lacrime, una catarsi 
liberatrice visualizzata con gocce e flussi di una cascata. Poi, finalmente, arriva la 
calma, la rabbia si placa, il respiro si regolarizza, quello della ragazza e della 
stanza con lei. Sulla parete la protagonista scrive con la cenere la frase 
"Il dolore è il padre della creazione". Quello che rimane, la traccia di una crescita 
appena avvenuta.
Olga Gambari
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