di Sergio Gabriele |
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Charles Jean Paul – Dietrologia dei segnali abrasi La ricerca spasmodica dell’uomo verso il suo simile, inteso come coadiutore nella risposta mancata, è ormai ridotta ai minimi termini, troppi i segnali convergenti e divergenti, troppe le idiosincrasie personali che travalicano, subissano l’altrui istanza, in una rincorsa al miraggio che sia, soprattutto, soltanto miraggio. E’ la moderna iconografia dell’indistinto, che fa chiudere l’universo espressivo dell’individuo nella ridondanza degli stili, moltiplicazione degli emotional rescue per una emergenza sempre più ardua anche nel solo riconoscerla. Charles Jean Paul agita ancora animosamente la lanterna di Diogene per cercare in ogni sua virgola espressiva il segno di quell’uomo confuso più che scomparso. Le sue figure antropomorfe, ma che è dire il suo astratto contemporaneo, implodono per la varietà dei richiami interni, sortite verso l’estrema ricomposizione dell’umana aspirazione a comprendere ed essere compresi. Le forme si accavallano nel disperato tentativo di evidenziare le stratificazioni, che come cerchi concentrici di un albero o curve di isoconcrezione nelle rocce, vorrebbero testimoniare un percorso, una scelta, una direzione anche e soprattutto quando questa è restata miseramente disattesa. Le sommarie pennellate a larga tesa, mirate a raccogliere in qualche modo il contorno, non fanno altro che scucire la prospettiva e ricondurre la memoria al suo attimo precedente, una anteposizione del futuro passato, una mimica triste del tempo che non si riesce a fermare, inteso questo nobile sforzo come tentativo di comunicare l’ansia stessa dei secoli, in articulo mortis. Le pose sono asfittiche, deformate, claudicanti per interposto desiderio di assistere all’ombra indelebile della Bellezza impressa al suo occhio olimpico. Il tema trattato da Charles, ovvero la sfida a dimensionare il nero come auspicata profondità delle ombre, in modo tale da arginare la fluttuanza iconografica dei miseri resti, lo conduce a lavorare sullo spazio come ambientazione ante-litteram, per decodificare la fretta da obitorio che ha confuso alluci e talloncini. E’ sempre vigile, infatti, la luce riflessa di spot fuori uso e fuori scena, per dare una dinamica che sia solo ottica al proscenio dei falsi pentimenti, quelli che ancora fanno pensare a volte al corpo umano come un contenitore di funzioni e sentimenti. E invece è bersaglio, nell’opera di Charles Jean Paul, sempre, anche quando la delocalizzazione dell’informale parrebbe distogliere l’arco cromatico in una serie di generose performances. In Charles Jean Paul è impossibile seguire oltre il canovaccio delle opportune deduzioni, siano esse scenografiche o teoretiche, e diventa perfino sanamente inaffrontabile il gaudium visivo del mulinare dei simboli in una riappacificazione estetica, pur distintamente presente, perché lo sguardo è sempre rivolto altrove, ai documenti, al passing scaduto, al check-in rinviato sempre ad un attimo fa, dell’eterna partenza di uomo verso ciò che qualcuno gli ha detto, un giorno, essere la sua finalità cosmica. Connotati lisi, invalidati, ricusati dallo scanner. Sergio Gabriele Oddio questi fasci di luce, sciabolate di rifrangenza opalina che strapazzano l’iride, lo sgretolano, trasformando gli altri barlumi in ferite d’alba, in spasimati ripensamenti. Ma io ho da andare!! Devo attraversare questi tubi ritorti che sembrano riportare sempre al loro punto di partenza. Un piping delle accorte previsioni. Ma qual è il mio punto di partenza? L’acciaio riluce ossidazioni stroboscopiche, strali di rifrangenza, sabbia negli occhi come sfiammate di saldatura. Io e quando ho pensato che l’uomo potesse essere ricomposto, in questa selva di condotti attorti, attorno ai quali agili ombre si fondono con il nero pece delle allusioni da backstage. Sono queste le distrazioni più atroci dal mio cammino, le ombre, la pioggia di nero liquido che cola fra le grate a trama fitta delle allucinazioni, volti che sembrano di cartapesta pestata e rammorbidita con acqua, alcol, lisergiche spremute ristrette di succhi galattici non identificati. Ecco, un altro, e un altro ancora, veloci, rapidi, che non mi fanno intendere più la ragione stessa della mia ricerca. Ricerca? O sono io, il ricercato. Sento qualcosa sui polsi che preme, stringe, mi agita in clangori di ferro strattonato.. manette?? ma se io posso indicare, riprendere, manipolare, spargere a piene mani melme grondanti colore e scagliarle su centri opinabili, di carta o di cielo, che sono lì a raccogliere lo squarcio delle linee, anche se ho tirato a caso, anche se sono stato veloce a non farmi prevedere, e mi vedo lì, riflesso in una quantità di pigmenti che sembrano tornare indietro e urlarmi che no, lì l’uomo non c’era e neanche lì, e sotto, e questo dannato nero che diventa pece sui polpastrelli che non riesco più a staccare, e mi resta la mano in un interrogativo, ma che vuoi, che volete, tutti, da me? perché, perché ho avuto questa missione del cavolo di dover rappresentare a tutti i costi una fuga, dagli altri come da me stesso? e perché sono imprigionato, ora? La mano destra è libera, lo sento, anche se vedo le manette ciangolare come catene di fantasmi, e la sinistra? pureincatenata, e allora perché riesco a sollevarmi, a farmi forza, ad allontanarmi perfino in cerca di una leva? Quando fui così distante da non sentire che gocce di cosmo che picchiettavano sul mio elmo in plexiglass, allora capii che non c’era più bisogno di liberarmi, che lo ero già, tanto da poter invertire i segni, e le ombre e i tratti della schiena di questo irsuto sauro che non so se sia una specie futura o un rettile tornato dal tempo e offeso dalla natura che lo ha estinto per far posto a me, a me, capite? un piccolo uomo delle grandi radure in pvc, che scivola sulle sue resine, che corre in avanti per non farsi trovare dal futuro, e soprattutto che crede di avere un compito, una consegna. Il mio alitare caliginava in questa spelonca di tubi innocenti, serrati a ruggine che scomporli è impensabile, alla sola luce di una torcia che mi illumina dal basso, e mi deforma i lineamenti, li contorce, li distorce in una forma d’urlo che non riesce a penetrare l’aria compatta come gelatina, un urlo che si attutisce al primo fonema, non è spento, muto, semplicemente smorzato, come fiamma nell’acqua, come mano in uno schermo catadriottico a cristalli solidi. La mia mano, ancora la mia mano, che sparisce, e ricompare, ed entra nel mio volto come lama nel burro. Mi volto di scatto, è la luce, devo spegnere questa luce che mi rende riconoscibile come un faro disperso nella tempesta. Devo stare al buio, confarmi lentamente all’idea del buio, per meglio penetrare il suo mistero, per meglio identificare gli altri barlumi, le scintille. Quando questo avviene mi sento investito da una pioggia di meteoriti, come manciate di ghiaia fosforescente che non creano dolore ma fastidio, logorano questo ultimo nervo che mi è rimasto, lo corrodono mostrando la sua corda, la sua polpa, e lì duole, davvero, questa grandine di pensieri misti a colore rappreso, a materia cromatica scaduta che mi crepa davanti agli occhi come un terremoto delle idee, che non posso vedere, così, al buio, ma solo avvertire nelle esalazioni che per contrasto termico assumono le tinte più spaziali, ritorcimenti grafici che sembrano colori e invece sono mescolanze, sputi, colate di acciaio raffreddato, la rifrangenza di un incandescente spento, come l’ultima brace di un camino, confusa nelle cenere. La mia corsa cadenzata, ritmata, secca, ma è ancora su metallo che sto correndo, grate, scalini che distruggono gli stinchi, scivolate che sbattono sul petto i corrimano, distorcendo la corsa, mimetizzando la fuga. Mi chino distrutto, non ho fiato, la saliva mi cola dalla bocca come bava di lumaca, traccia, una traccia, ho lasciato tracce di me, dna inequivocabili, prodotti dell’eccessiva concentrazione. L’uomo, l’uomo, maledetto uomo, fatti vedere, non voglio prenderti, né disegnarti né alterare le tue forme, né sofisticare le tue sfumature, le tue tonalità. Voglio solo vederti. Sentii uno scalpiccio sulla grata, una impercettibile sosta, mi alzai e mi scagliai di schiena sulla ringhiera, le mie mani cercavano nervose le vie di salvezza, buio, scintillare di occhi, aguzze lame di brillanza che cadevano dall’alto, a mostrare un profilo di nebbia ma tanto esplicito in quel tratto di sguardo di lato da farmi pensare all’amore. Ad inseguire e fuggire nello stesso tempo e senza sapere cosa, iniziai a correre, come un atleta dei cento metri, segnando la corsa con un pendolo dei gomiti simile al braccio che agita il pistone di un motore. Correre, senza direzione, ma solo impulso, correre, senza pensare alla fuga né al ritorno, né ad urtare alcunché nel tragitto, in un buio asfittico che sfavillava skyline di montagne in chiaroscuro, correre, e basta, correre ancora e per sempre. Non so se verso l’alto o il basso, a sinistra o in obliquo. Corro e basta. Sergio Gabriele gennaio 2011 |
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