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(marco filippa)
Prof. Montaldo siamo felici che abbia accettato la nostra intervista; lei dirige
un piccolo-grande museo dedicato a Cesare Lombroso e, in qualche modo, il tema è
affine a quello di Profile, la mostra che ci accingiamo a inaugurare. Ho letto,
non se sia vero, che dopo la morte di Lombroso, il suo corpo fu sottoposto ad
autopsia. In base ai risultati si disse che, secondo le sue stesse teorie,
sarebbe stato da ritenere, "affetto da cretinismo perpetuo".
Se questa storia è vera, sembra scaturita da un film di Woody Allen.
Battute a parte, può raccontarci qualcosa di questo museo, della sua storia…
insomma passo a lei la palla.
(Prof.Silvano Montaldo)
Sì, dopo il decesso, il cadavere di Cesare Lombroso fu sottoposto ad autopsia,
secondo le sue volontà, dagli allievi, tra cui Mario Carrara, suo genero.
Alcune parti del corpo, tra cui il cervello, furono asportate e sono tuttora
conservate, così come lo scheletro, che è esposto in Museo in base alle
indicazioni testamentarie. Non sono un anatomista, e pertanto non saprei se
l’esame autoptico abbia davvero rivelato una sindrome di qualche natura, oppure
se anche ciò faccia parte delle tante leggende fiorite intorno al personaggio e
al suo museo. Quest’ultimo è nato come collezione privata, soprattutto a carattere
craniologico, intorno al 1859; è cresciuto negli anni pavesi, per seguire il suo
proprietario a Torino nel 1876. Negli anni successivi avverrà il riconoscimento,
da parte dell’Università di Torino e del governo italiano, dell’interesse di questa
raccolta, che diventò un vero e proprio museo universitario con il trasferimento
nella sede attuale, presso il palazzo degli Istituti anatomici, a fine Ottocento.
Dopo la morte di Lombroso fu Carrara a succedergli, nell’insegnamento di Antropologia
criminale e nella direzione del museo, fino al 1932, quando egli venne radiato da
ogni incarico per essersi rifiutato di giurare fedeltà al fascismo.
All’epoca, si pensò addirittura a un trasferimento della collezione a Roma, ma
il museo rimase a Torino, ormai sempre più legato agli sviluppi della Medicina
legale, più che a quelli dell’Antropologia criminale, che si era rivelata un campo
di ricerca sterile. Con il secondo dopoguerra il museo è andato infatti assumendo
sempre più un carattere storico, come documentazione della storia di una disciplina
e più in generale di una fase delle scienze dell’uomo in Italia, che ebbe notevole
influenza sul piano culturale e anche, in parte, in campo giuridico.
La piena consapevolezza dell’importanza di questo giacimento come bene culturale
da tutelare e valorizzare si è avuta però solo con la mostra “La scienza e la colpa.
Crimini, criminali, criminologi.
Un volto dell’Ottocento”, allestita nel 1985 presso la Mole antonelliana.
Da quel lavoro ha preso avvio la campagna di catalogazione di tutti i materiali
presenti, coordinata da Umberto Levra e dall’allora direttore del museo,
Mario Portigliatti Barbos. Infine, grazie all’avvio del progetto Museo dell’Uomo,
in collaborazione tra l’Ateneo torinese, la Città di Torino e la Regione Piemonte,
guidato da Giacomo Giacobini, il museo ha trovato una collocazione adeguata presso
la sede originaria ed è stato aperto al pubblico nel novembre 2009.
Sinora, i risultati in termini di pubblico, sia per numero di visitatori, che per
l’apprezzamento dell’esposizione, sono molto incoraggianti. Oggetti delle collezioni
lombrosiane sono continuamente richiesti per grandi mostre sulla scienza o sull’arte
in Italia e all’estero, mentre si sono rivelate come strumentalizzazioni politiche
legate alla ricorrenza del Centocinquantesimo dell’unificazione le polemiche scagliate
da gruppi “neoborbonici” che hanno voluto vedere nell’apertura del museo l’espressione
di un latente razzismo nei confronti degli italiani del Sud.
(marco filippa)
Quindi il genero di Lombroso fu tra quei pochi docenti universitari che rifiutarono
di giurare fedeltà al fascismo, notizia suggestiva e al contempo interessantissima
che mi spinge, con un volo (neppure troppo) pindarico, a cercare possibili parallelismi
tra gli anni trenta e il presente, tra la criminologia odierna e un tentativo, seppur
superficiale, di analisi antropologica dell’Italia odierna. Tra la criminologia mediatica
(da Pacciani a Vantaggiato passando per Anna Maria Franzoni) condita da succulenti
dibattiti pseudoscientifici in un paese in cui statisticamente i crimini sono in
diminuzione, ma percettivamente la paura amplifica l’insicurezza sociale e al contempo
le carceri scoppiano e i tribunali sono al collasso dopo ormai trent’anni di condanne
dalle corti europee e internazionali. Un’ora di antropologia culturale, fin dalla scuola
elementare, credo assicurerebbe più coscienza civile a un paese avvitato culturalmente
fino al ridicolo. Non è propriamente una domanda, ma piuttosto una riflessione, quella
che offro alla sua libera interpretazione. A lei la parola.
(Prof.Silvano Montaldo)
Antropologia culturale, certo, non l’antropologia criminale lombrosiana, che non può
essere insegnata oggi poiché era una disciplina rivelatasi erronea nelle sue basi
scientifiche, e questo è uno degli aspetti fondamentali dell’educazione museale che
viene fornita al visitatore, sia nello specifico delle teorie lombrosiane, sia più
in generale, poiché le certezze scientifiche sono sempre provvisorie, in ogni epoca.
Condivido pienamente anche gli altri aspetti del Suo discorso, ad esempio sull’allarme
sociale veicolato dai mass media. Nel 1876, quando Lombroso pubblicò la prima edizione
dell’Uomo delinquente, la popolazione italiana era circa un terzo di quella di oggi e
gli omicidi erano il triplo. Ciò da un lato dovrebbe indurci ad attenuare il senso di
insicurezza diffuso, e dall’altro, per lo storico, contribuisce a spiegare il successo
che all’epoca riscossero le teorie lombrosiane, poiché sembravano dare una risposta e
offrire delle soluzioni a una delle grandi questioni che incombevano sulla vita del
giovane Stato italiano.
(marco filippa)
L’incertezza scientifica ha del resto basi solide nel criterio popperiano di
falsificabilità; oggi i media tradizionali e i new-media ci offrono potenzialmente
strumenti enormi di comunicazione ma non ci assicurano per questo un’autentica conoscenza.
Un museo come quello da lei diretto ha il pregio di diffondere la conoscenza di cui ce
n’è sempre più un gran bisogno. Ho letto, in una nota biografica che la riguarda che,
tra le molte cose, ha curato insieme a Giancarlo Monina, la prima indagine nazionale
sull’insegnamento della storia Contemporanea in Italia. L’importanza della storia per
il futuro, ritengo sia un dato fondamentale per la crescita di una comunità.
A partire da questa ricerca le chiedo di chiudere l’intervista con un’ampia riflessione
e la ringrazio ancora per la disponibilità dimostrata.
(Prof.Silvano Montaldo)
Quella ricerca è stata una sorta di censimento sull’insegnamento della storia contemporanea,
un settore specifico all’interno dell’ampio ventaglio di discipline storiche che vengono
insegnate nelle università italiane. Ne emergevano considerazioni interessanti, ad esempio
sulla preponderanza, nei programmi di insegnamento, della storia del Novecento su quella
dell’Ottocento, una tendenza che forse è stata in parte e per un breve periodo corretta
in occasione del Centocinquantesimo dell’unificazione italiana, quando sono apparsi anche
molti studi sul Risorgimento e sull’Italia liberale. In generale, però, si deve lamentare
un preoccupante scollamento tra il livello degli studi accademici e il tipo di comunicazione
che viene divulgata da radio, stampa, cinema e televisione. È un po’ come se università
e mass media comunicassero poco, o lo facessero attraverso canali non trasparenti, un
problema che può essere addossato solo in parte al mondo accademico, che pure ha le sue
responsabilità. Faccio un esempio: una trasmissione radiofonica come il “Bollettino del
Risorgimento” realizzata da Radio 24 è stato un ottimo programma sul processo di
unificazione, che ha fornito una comunicazione non ingessata, corretta ed efficace, ma
altri eventi televisivi realizzati in occasione del Centocinquantesimo avrebbero potuto
giovarsi delle competenze presenti nelle università italiane, che invece spesso non sono
state interpellate.
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