progetto maionese 
immagini spazi mostra
CFrom: "Mauro Comba" <maurocomba@libero.it> 
To: "Elena Privitera" <epa@epa.it> 
Subject: testo per majonese 
Date: Fri, 10 May 2002 15:24:15 +0200
 

Il Peso del Virtuale comunicato

En Plein Air  

 

 

mauro comba: con titolo
(da salvare con nome, forse)

per:il peso del virtuale En plein air, 
Elena Privitera: da un mio punto di (s)vista:

labirintite ti afferra sconvolto mentre ondeggi.s’arrotolano sopra i piedi sotto gli occhi terra e cielo.sguazzano inutili le tue mani. nella vitrea liquescenza equorea del video. gravità vorresti, e freni, mentre leggerezza ti s’addensa dentro arrovesciandoti, sprofondandoti di sotto in su. questa la lemme velocità di quanto si materializza sullo schermo su cui s’ appiattisce si srotola quanto le tue dita-di-rosa, dita spruzzolate di sangue, vanno sillabando sulla tastiera. e, a tratti, tedio. infinito tedio, parrebbe. un imbuto-buco nero vorace. come nell’ Infinito leopardiano (oltre l’ultimo orizzonte, spazi interminati, silenzi sovrumani, quiete profondissima): non c’è cielo, e, se fosse, è privo di stelle, desolatamente nero: è, questo, lo schermo, il luogo-non luogo da cui si emana quanto ti si squaderna, dopo il click d’avvio, sul ventre gravido di luce arcuata su cui ti s’ appuntano gli occhi doloranti. e poi, leggère come il fumo azzurrino che sale e svapora dalle dita delle cigarières della Carmen di Bizet (atto I°, scena 3°) o dall'inetta 
volontà di Zeno Cosini, incapace di sottrarsi a quella che dovrebbe sempre essere l’ultima sua sigaretta (cap.III° della sua Coscienza) o, ancora, dagli occhi glauco-acquosi della 
giovane donna de L’ absinthe che, sbadata e persa, pare non essersi accorta del mozzicone che le si è spento tra le dita (olio di Degas, del 1876, conservato al Louvre), così sono, per me, per un di più di sublimata, inafferrabile effervescenza, le emozioni che s’affastellano risucchiate che si stampigliano sul prominente, bianco sbiadito sacco amniotico dello schermo: 
e che, nel contempo, avverto urgere (d)alla nuca, cieca e protesa, come incombere avvolgente, coinvolgente, allo stesso modo del caravaggesco San Matteo, del 1602, insufflato, quello, da un angelo ispiratore (Roma, Chiesa di San Luigi dei Francesi). insufflato, lui. lui. 
intanto quanto, nello spazio-tempo della scrittura affidata (d)alle immagini scaturite dentro di te (d)alle veline virtuali dei files smateriati e incorporei, plana, si va spiaccicando 
sullo schermo risucchiando nel suo colaticcio bituminoso emozioni e pensieri, sue prede incrostate e ingrommate. intanto lo spazio dentro di te e tra te e la luce che s’ emana dallo 
schermo sembra nientificarsi permeandosi di una leggerezza più lieve. levità. virtuale. levità-peso di un’ inform(al)e informatica. solamente virtuale. ?. intanto sulle palpebre 
appesantite scivola sabbiolina. che s’insinua. e si sparpaglia. in ogni possibile interstizio del presunto cosmo-bulbo oculare. appesantito. Seneca avrebbe definito nausia questo stato 
psico-fisico, nausia e fastidium (Epistole a Lucilio, II,24,26). poco virtuale. poco virtuosa, 
questa sabbiolina che costringe a lacrime acri. e ti stanca. e il tuo cielo riprende a arrotolarsi e ti sguscia via mentre le lettere-tarme dell’alfabeto sferruzzano sferragliano 
e tra-pa-na-no le tempie. tempie inconsapevoli del tempo divorato (d)al computer. 
Occupati così ci avrebbe definiti, ancora una volta, Seneca (Sulla brevità della vita, 12,1-7 et passim ): intasati nel/dal quotidiano. in cui ci s’ ingaglioffa, ottusi. quando non afferrati 
dalle lettere-tempo scandite dalle dita sulla tastiera. da quale parte ruotano impazzate le lancette? quelle del tuo tempo proustiano. bergsoniano. agostiniano. ma immemoriale. smemoratosi di sé. e d’altro da sé. scivolano su lame d’ olio denso, inarrestabili. e tu, intanto, tocchi sfiori lo schermo e poi sfili le stanghette sudaticce delle lenti poco forbite e lo vedi 
rimpicciolito. e più lontano. e, sgomento, protendi una mano come per riafferrarlo. con un gesto goffo della mano ingannata. che vi si sbatte. come quel passerotto appallottolatosi nella vetrata appena dischiusa. colaticcio rosso-strisciante che si rinsecca repentinamente rasciugato il segno lasciato. farfùglio (mi si passi questo neologismo) di piume stuporose. smarrimento nell’occhio nero. così pare anche dei/nei tuoi sensi disingannati, (d)elusi. e le tue dita il tuo tatto s’impaurano e sbatti palpebre nervose e polpastrelli vibratili sfregano untume 
e sebo sulla fronte, sulla bocca accarezzata dalla tua mano che medita. che pensa piegando l’indice sotto il nido-calore del naso mentre il pollice s’affonda nella guancia. e il polpastrello, lì, ritrova fiducia. mentre l’anulare sfrega con non celato piacere la barba ispida sulla mascella. l’altra. quella opposta. dura. respiri un poco affannato. e annaspi. 
mentre si difilano, attratte laggiù, le parole che sfuggono. insonni. risucchio. risacca. filano via i bits d’un d’ un flusso d’ informazione che corre sui circuiti sotto forma d’impulsi elettronici. bits senza peso (Calvino, Lezioni americane, Milano, 1988, p.10). 
ex-in-de-flusso d’ (in)coscienza vi s’oppone. vi s’opporrebbe. frammenti pe(n)santi. sonde ansiose in blu scuri, a-cosmici. fra la mente. fra le menti. pe(n)santi. e poi, cos’è che produce quella sottile ansietà quando leggi sullo schermo? la verticalità del foglio. chi legge ha di fronte a sé un foglio che se ne sta in verticale per propria inesauribile volontà. fastidiosamente inesausta. in equilibrio per noi instabile. potrebbe anche starsene capovolto verso il basso dal soffitto, il foglio, appiccicato sulla piatta superficie dello schermo-risma. 
chi legge(sse) sa(prebbe) di stare (come) a testa in giù camminando con concentrato interesse su una pagina sotto ai suoi piedi: non è difficile poiché la gravità s’elimina con un soffio. qui, sul foglio smateriato. io vedo, ora, parole che levitano dissolvendosi azzurrine nel punto d’incontro di tutte le diagonali possibili del parallelepipedo in cui si trova la mia scrivania, anche se tutte le sei pareti si sono come volatilizzate. in questo momento non vi sono pensieri ma solo bits poiché quelli, leggeri, sono stati risucchiati verso il basso, sotto il pavimento, e quelli pesanti sono sprofondati in alto, sopra il soffitto, tutti, comunque, oltre i possibili confini di questa pagina. nei meandri nei labirinti del computer che continua a restarmi estraneo, se tento investigarne la sostanza. come una lingua morta sconosciuta. per me il computer non è senso ma è essenziale come l’ alfabeto: un sistema di scrittura adeguato o evoluto, che è poi quello "che non pensa nulla" (Havelock, Dalla A alla Z, ediz.ital. il melangolo,1976, p.21). 
ecco perché Rimbaud volle significare, dell’alfabeto, almeno le vocali. così, come in (un) sogno, spalanco palpebre e sbatto palpebre su altre palpebre sempre serrate cucite senza ciglia 
come carte da gioco consunte tra dita agili. guizzi biancastri. oppure cammino con le caviglie affossate in un pantano e i piedi, in realtà ad un tempo affusolatissimi e appiattiti, nel 
contempo dilatati, si strascinano su sabbie finissime di fondali- baratri oceanici dove creature boschiane, esseri multiformi degli abissi s’acquattano. e temo d’ incapparci. e spero di evitare aculei mortiferi. e tentando di spingermi, con sforzi, dalle caviglie esili in su, fuori dal sale equoreo, sollevo comunque il mento il più possibile e arrovescio e tendo il capo in alto per non affogare. e sputo gorgogli-folate di salsedine in cieli plumbei. che ondeggiano e oscillano e si capovolgono e ruotano vertiginosi su di me. e allora arrovescio il capo in alto in basso in quei cieli plumbei o d’un azzurrino inconsistente, angosciante. in aria asfissiante. meandri. labirinti. 
e vorrei uscirne e non so varchi. cerco parole ma non trovo abissi miei dove ripullulino. so solamente segni muti. solo segni muti ( e ripenso il tema che mi fu dato/quando mi presentai 
all’esame/per l’ammissione alla vita./../Scrissi su un foglio d’aria senza penna e pennino, il pensiero non c’era ancora/Il ricordo obiettai, non anticipa, segue da Vivere di Montale). 
e non so se salverò con nome o senza nominarlo questo file. e Arianna , se fosse, sarebbe il suo nome. non, comunque, il motore di ricerca. l’altra. quella che seppe i fili dei labirinti. 
nomen omen. non sempre. Arianna: specchio dei miei pensieri. specchio infranto. luccichio calpestato la tua inconsistente essenza. la tua, per me, consistente assenza. intanto, per 
fuoriuscire da questo dedalo-ade, si dice siano due le porte (ma, del sonno), per me quasi mai insonne, e che una sia di corno, quella dalla quale sgusciano via i sogni veri mentre dall’altra, che è d’avorio, si emanano i sogni falsi. fino alla porta d’avorio, fino a quella di corno si prosegue. pertanto. da una delle due, o da entrambe o, infine, forse, da nessuna delle due, pare noi si possa risalire ( da Virgilio, Eneide, VI,898-899). non c’è invece nome per nominare quella da cui ci si sarebbe infilati entrandovi: quella si trova in un non luogo di notte-ventre perenne. e le sue parole hanno senso oscuro. lì, quando il viaggio inizia, lì s’abbuia. ci s’abbuia.
proprio come quando si può spengere il computer. quando defluisce repentino l’ ultimo guizzo che candisce sullo schermo la sua scia luminescente. che s’appallottola risucchiandosi-risucchiato in un breve gorgo sospirato. asmatico. come s’appallotterà-si sta appallottolando questo foglio. di luce e d‘ombra. d’ombra. di luce. ora. proprio ora. 

Barge, 9 maggio
Invio il testo pensato per “il peso dell’ informatica”.
Cordiali saluti,
Mauro Comba
maurocomba@libero.it

Juan Maria Calles
Tiziana Conti
mostre maionese dal 1998