mauro comba: con titolo
(da salvare con nome, forse)
per:il peso del virtuale En plein air,
Elena Privitera: da un mio punto di (s)vista:
labirintite ti afferra sconvolto mentre ondeggi.s’arrotolano sopra i piedi sotto gli
occhi terra e cielo.sguazzano inutili le tue mani. nella vitrea liquescenza equorea del
video. gravità vorresti, e freni, mentre leggerezza ti s’addensa dentro arrovesciandoti,
sprofondandoti di sotto in su. questa la lemme velocità di quanto si materializza sullo
schermo su cui s’ appiattisce si srotola quanto le tue dita-di-rosa, dita spruzzolate di
sangue, vanno sillabando sulla tastiera. e, a tratti, tedio. infinito tedio, parrebbe.
un imbuto-buco nero vorace. come nell’ Infinito leopardiano (oltre l’ultimo orizzonte,
spazi interminati, silenzi sovrumani, quiete profondissima): non c’è cielo, e, se fosse,
è privo di stelle, desolatamente nero: è, questo, lo schermo, il luogo-non luogo da cui
si emana quanto ti si squaderna, dopo il click d’avvio, sul ventre gravido di luce arcuata
su cui ti s’ appuntano gli occhi doloranti. e poi, leggère come il fumo azzurrino che sale
e svapora dalle dita delle cigarières della Carmen di Bizet (atto I°, scena 3°) o dall'inetta
volontà di Zeno Cosini, incapace di sottrarsi a quella che dovrebbe sempre essere l’ultima
sua sigaretta (cap.III° della sua Coscienza) o, ancora, dagli occhi glauco-acquosi della
giovane donna de L’ absinthe che, sbadata e persa, pare non essersi accorta del mozzicone
che le si è spento tra le dita (olio di Degas, del 1876, conservato al Louvre), così sono,
per me, per un di più di sublimata, inafferrabile effervescenza, le emozioni che s’affastellano
risucchiate che si stampigliano sul prominente, bianco sbiadito sacco amniotico dello schermo:
e che, nel contempo, avverto urgere (d)alla nuca, cieca e protesa, come incombere avvolgente,
coinvolgente, allo stesso modo del caravaggesco San Matteo, del 1602, insufflato, quello, da
un angelo ispiratore (Roma, Chiesa di San Luigi dei Francesi). insufflato, lui. lui.
intanto quanto, nello spazio-tempo della scrittura affidata (d)alle immagini scaturite dentro
di te (d)alle veline virtuali dei files smateriati e incorporei, plana, si va spiaccicando
sullo schermo risucchiando nel suo colaticcio bituminoso emozioni e pensieri, sue prede
incrostate e ingrommate. intanto lo spazio dentro di te e tra te e la luce che s’ emana dallo
schermo sembra nientificarsi permeandosi di una leggerezza più lieve. levità. virtuale.
levità-peso di un’ inform(al)e informatica. solamente virtuale. ?. intanto sulle palpebre
appesantite scivola sabbiolina. che s’insinua. e si sparpaglia. in ogni possibile interstizio
del presunto cosmo-bulbo oculare. appesantito. Seneca avrebbe definito nausia questo stato
psico-fisico, nausia e fastidium (Epistole a Lucilio, II,24,26). poco virtuale. poco virtuosa,
questa sabbiolina che costringe a lacrime acri. e ti stanca. e il tuo cielo riprende a
arrotolarsi e ti sguscia via mentre le lettere-tarme dell’alfabeto sferruzzano sferragliano
e tra-pa-na-no le tempie. tempie inconsapevoli del tempo divorato (d)al computer.
Occupati così ci avrebbe definiti, ancora una volta, Seneca (Sulla brevità della vita, 12,1-7
et passim ): intasati nel/dal quotidiano. in cui ci s’ ingaglioffa, ottusi. quando non afferrati
dalle lettere-tempo scandite dalle dita sulla tastiera. da quale parte ruotano impazzate le
lancette? quelle del tuo tempo proustiano. bergsoniano. agostiniano. ma immemoriale. smemoratosi
di sé. e d’altro da sé. scivolano su lame d’ olio denso, inarrestabili. e tu, intanto, tocchi
sfiori lo schermo e poi sfili le stanghette sudaticce delle lenti poco forbite e lo vedi
rimpicciolito. e più lontano. e, sgomento, protendi una mano come per riafferrarlo. con un gesto
goffo della mano ingannata. che vi si sbatte. come quel passerotto appallottolatosi nella vetrata
appena dischiusa. colaticcio rosso-strisciante che si rinsecca repentinamente rasciugato il
segno lasciato. farfùglio (mi si passi questo neologismo) di piume stuporose. smarrimento
nell’occhio nero. così pare anche dei/nei tuoi sensi disingannati, (d)elusi. e le tue dita
il tuo tatto s’impaurano e sbatti palpebre nervose e polpastrelli vibratili sfregano untume
e sebo sulla fronte, sulla bocca accarezzata dalla tua mano che medita. che pensa piegando
l’indice sotto il nido-calore del naso mentre il pollice s’affonda nella guancia. e il
polpastrello, lì, ritrova fiducia. mentre l’anulare sfrega con non celato piacere la barba
ispida sulla mascella. l’altra. quella opposta. dura. respiri un poco affannato. e annaspi.
mentre si difilano, attratte laggiù, le parole che sfuggono. insonni. risucchio. risacca.
filano via i bits d’un d’ un flusso d’ informazione che corre sui circuiti sotto forma
d’impulsi elettronici. bits senza peso (Calvino, Lezioni americane, Milano, 1988, p.10).
ex-in-de-flusso d’ (in)coscienza vi s’oppone. vi s’opporrebbe. frammenti pe(n)santi.
sonde ansiose in blu scuri, a-cosmici. fra la mente. fra le menti. pe(n)santi. e poi,
cos’è che produce quella sottile ansietà quando leggi sullo schermo? la verticalità del foglio.
chi legge ha di fronte a sé un foglio che se ne sta in verticale per propria inesauribile volontà.
fastidiosamente inesausta. in equilibrio per noi instabile. potrebbe anche starsene capovolto
verso il basso dal soffitto, il foglio, appiccicato sulla piatta superficie dello schermo-risma.
chi legge(sse) sa(prebbe) di stare (come) a testa in giù camminando con concentrato interesse su
una pagina sotto ai suoi piedi: non è difficile poiché la gravità s’elimina con un soffio. qui,
sul foglio smateriato. io vedo, ora, parole che levitano dissolvendosi azzurrine nel punto
d’incontro di tutte le diagonali possibili del parallelepipedo in cui si trova la mia scrivania,
anche se tutte le sei pareti si sono come volatilizzate. in questo momento non vi sono pensieri
ma solo bits poiché quelli, leggeri, sono stati risucchiati verso il basso, sotto il pavimento,
e quelli pesanti sono sprofondati in alto, sopra il soffitto, tutti, comunque, oltre i possibili
confini di questa pagina. nei meandri nei labirinti del computer che continua a restarmi estraneo,
se tento investigarne la sostanza. come una lingua morta sconosciuta. per me il computer non è
senso ma è essenziale come l’ alfabeto: un sistema di scrittura adeguato o evoluto, che è poi
quello "che non pensa nulla" (Havelock, Dalla A alla Z, ediz.ital. il melangolo,1976, p.21).
ecco perché Rimbaud volle significare, dell’alfabeto, almeno le vocali. così, come in (un)
sogno, spalanco palpebre e sbatto palpebre su altre palpebre sempre serrate cucite senza ciglia
come carte da gioco consunte tra dita agili. guizzi biancastri. oppure cammino con le caviglie
affossate in un pantano e i piedi, in realtà ad un tempo affusolatissimi e appiattiti, nel
contempo dilatati, si strascinano su sabbie finissime di fondali- baratri oceanici dove creature
boschiane, esseri multiformi degli abissi s’acquattano. e temo d’ incapparci. e spero di evitare
aculei mortiferi. e tentando di spingermi, con sforzi, dalle caviglie esili in su, fuori dal sale
equoreo, sollevo comunque il mento il più possibile e arrovescio e tendo il capo in alto per non
affogare. e sputo gorgogli-folate di salsedine in cieli plumbei. che ondeggiano e oscillano e si
capovolgono e ruotano vertiginosi su di me. e allora arrovescio il capo in alto in basso in quei
cieli plumbei o d’un azzurrino inconsistente, angosciante. in aria asfissiante. meandri. labirinti.
e vorrei uscirne e non so varchi. cerco parole ma non trovo abissi miei dove ripullulino. so
solamente segni muti. solo segni muti ( e ripenso il tema che mi fu dato/quando mi presentai
all’esame/per l’ammissione alla vita./../Scrissi su un foglio d’aria senza penna e pennino,
il pensiero non c’era ancora/Il ricordo obiettai, non anticipa, segue da Vivere di Montale).
e non so se salverò con nome o senza nominarlo questo file. e Arianna , se fosse, sarebbe il
suo nome. non, comunque, il motore di ricerca. l’altra. quella che seppe i fili dei labirinti.
nomen omen. non sempre. Arianna: specchio dei miei pensieri. specchio infranto. luccichio
calpestato la tua inconsistente essenza. la tua, per me, consistente assenza. intanto, per
fuoriuscire da questo dedalo-ade, si dice siano due le porte (ma, del sonno), per me quasi mai
insonne, e che una sia di corno, quella dalla quale sgusciano via i sogni veri mentre dall’altra,
che è d’avorio, si emanano i sogni falsi. fino alla porta d’avorio, fino a quella di corno si
prosegue. pertanto. da una delle due, o da entrambe o, infine, forse, da nessuna delle due,
pare noi si possa risalire ( da Virgilio, Eneide, VI,898-899). non c’è invece nome per nominare
quella da cui ci si sarebbe infilati entrandovi: quella si trova in un non luogo di notte-ventre
perenne. e le sue parole hanno senso oscuro. lì, quando il viaggio inizia, lì s’abbuia. ci s’abbuia.
proprio come quando si può spengere il computer. quando defluisce repentino l’ ultimo guizzo che
candisce sullo schermo la sua scia luminescente. che s’appallottola risucchiandosi-risucchiato
in un breve gorgo sospirato. asmatico. come s’appallotterà-si sta appallottolando questo foglio.
di luce e d‘ombra. d’ombra. di luce. ora. proprio ora.
Barge, 9 maggio
Invio il testo pensato per “il peso dell’ informatica”.
Cordiali saluti,
Mauro Comba
maurocomba@libero.it
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