DON'T TOUCH ME  Michele Bramante 

CARLA CROSIO
Nei suoi Marginalia, Edgar Allan Poe scrisse che se a qualcuno venisse il capriccio di rivoluzionare in un sol colpo l’universo del pensiero, dell’opinionee del sentimento umano, non dovrebbe far altro che intitolare il suo piccolissimo libro “il mio cuore messo a nudo”, mantenendo fedelmente la promessa del titolo.
Con l’astrazione eccentrica di “Tutti i Miei Giorni” - mutuata dalla mostra newyorkese del 1966 che esponeva Bourgeois, Hesse e Kusama - Carla Crosio racconta, con accecante franchezza, un diario intimo, una biografia quotidiana figurata che raccoglie frammenti di vita e memoria dell’artista, riconducendoli alla propria organicità essenzialmente femminile e alla creatività artistica, altrettanto congenita. Il candore del dodicesimo mese è il segno della purificazione di un ciclo concluso e preludio all’inizio del nuovo, matrice per rinnovati frammenti che arricchiscono il racconto.L’invasione bulimica e melanconica di spazio nell’opera “Ombra pericola”, estende la sua metastasi vischiosa e opprimente coprendo e divorando materia 
e coscienza, riducendo claustrofobicamente lo spazio vitale positivo. L’incontro perturbante per lo spettatore, che riconosce la fonte di quel nulla invasivo nella propria follia, occlude lo spazio per la riflessione costringendo ad una reazione immediata per la propria esistenza.

ROBERTA FANTI
 Nella superficie specchiante dell'esistenza ridotta ad immagine transitoria, Roberta Fanti esplora poeticamente l'Enigma, sfiorandone la bellezza terribile dei confini.
Le due opere esposte in mostra appaiono l’una come la verità dell’altra, due poli speculari di un’Idea separata nell’Iperuranio platonico. La bellezza virginale è rigidamente glaciale, nostalgicamente assente, una promessa di perfezione classica sempre elusa. Resurrection(9) mostra la fatalità dell’attrazione, 
la malia di una seduzione paralizzante il cui potere terrorizza la debolezza dell’uomo, e conduceva la strega al rogo.

MARZIA GALLINARO ha uno sguardo sempre attento allo scenario della condizione femminile nella quotidianità e nel contesto della sua evoluzione storico-sociale. La sua immaginazione mitopoietica crea, attraverso una molteplicità di media artistici messi a disposizione dal contemporaneo, un mondo mitico e carnevalesco di donne-asine, donne-uccello, di metamorfosi dove la mostruosità ironica e ludica è sia una difesa simbolica, carica di magia apotropaica, sia una fuga evasiva, un deflusso di libertà attraverso il sottile taglio nella desolante e 
grigia quotidianità
SARA GRAZIO sceglie un simbolo, un ovoide pseudofloreale, per accompagnare e descrivere metaforicamente le sue trasformazioni intime, come fosse il segno calligrafico di una 
scrittura la cui morfologia asseconda le mutazioni espressive e fisiologiche incarnate nella vita dall’artista. Osservando il corpus di opere di Sara Grazio, la costanza di questa cifra presenta analogie letterarie con il ritratto di Dorian Gray, che incornicia, 
nell’unica tela mistica, tutte le metamorfiche deformazioni dell’anima corrotta del bellissimo Dorian.
Attorno ad una profondità, irriducibilmente intima, che respinge ed attrae eroticamente o morbosamente lo spettatore, si dischiude, nell’opera in mostra, quella cesura con il mondo che connotava le precedenti conformazioni biopsichiche del simbolo. Una germinazione che accoglie, ancora con sospetto, la nuova possibilità di relazione, mostrando tutte le valenze sintomatiche di una geologia problematica della propria anima. 
NATASA KOROSEC
Usando il proprio corpo come segno, in una pratica performativa che recupera l’azione della body art, Korosec inscrive nel significante della sua opera se stessa, le proprie sensazioni, la spossatezza di energie spese nel temporalizzarsi del lavoro, il 
disorientamento sensoriale dovuto all’ostruzione dei sensi recisi. La diffusione del corpo dell’opera, fondamentale nella poetica dell’artista, mira alla propagazione nelle coscienze dello spettatore, socialmente connotato, il cui shock emotivo deve essere integrato nel significato della performance. Tale diffusione satura esternamente uno spazio che entra in forte tensione con la coscienza interna della performer, confinata 
claustrofobicamente in se dall’oppressione esterna.
Il potenziale pericolo a cui l’impotenza reale e simbolica dell’artista si sottopone, si riflette nel disagio dello spettatore, costretto a confrontarsi voyeuristicamente con una condizione critica inscenata per lui nello spettacolo artistico e da lui in 
quanto individuo sociale condizionante.
L’unica deprimente soluzione, Korosec sembra ammettere con desolata rassegnazione, è la sollevazione della società dalle sue responsabilità, con la sparizione del corpo perturbante che, d’atra parte, acquisisce l’unica libertà possibile: quella  dell’inesistente rassicurante, del non-essere per uno sguardo sazio del proprio narcisismo.
WILMA KUN
I personaggi di Kun fluttuano nell’infinitamente sottile piano di immanenza esistenziale, da cui scaturisce l’enigma fobico della presenza continuamente delocata nel vuoto.L’analisi logico-scientifica sull’uomo trasforma il soggetto di indagine in corpo fra i corpi, catalogandolo in un sistema binario di distinzione tra esseri animati e inanimati, e riducendo la vita a variabile differenziale del sistema. Collassano, con la disintegrazione atomica dei valori, differenze essenziali fra il corpo costituito di tessuti, contenitore di organi con precise funzioni attraverso i quali avviene la trasmissione di stimoli sensoriali, e le pezze antropomorfiche imbottite e inerti; tra persona e simulacro.Lo sguardo perturbante di lattice è, in modo paradossale, immediatamente comunicativo. Sono volti inquietanti che richiamano, con una voce oltremondana di Heideggeriana memoria, al nulla della nostra quotidianità. Sono il nostro doppio e il nostro destino, una derisione grottesca della vita che ha potere paralizzante.Ogni sguardo, ogni concetto ed ogni testo sono interpretazioni. La maschera è il testo 
dell’uomo intrappolato in un circolo ermeneutico che rinviene il testo dietro un testo, un travestimento dopo l’altro. I generi sono accidenti interpretativi: entrambi non si proiettano al di fuori della superficie che si connota sempre più come schermo mediatico. 
L’uomo è rappresentato al tratto, statistico e simulato; la donna si immola alla sagoma maschile idolatrata. Anziché decifrare effigi mortuarie per renderle diafane e permettere l’apparizione della nuova maschera, Kun sovraccarica i suoi attori di interpretazioni vuote, fino all’ultima immagine fatale, che respinge le vite precedenti in un ricordo assurdo.
YAEL PLAT 
Scienza positiva ed estetica, pratica chirurgica e cosmesi sono mutate, nelle loro ultime alterazioni, in tecnologie applicabili ad un corpo post-umano, divenuto sintomatico e ambivalente, amato e odiato nella nevrosi come incarnazione di se stessi e spazio per 
la proiezione del desiderio, secondo modelli la cui presunta origine sarebbe impossibile individuare attraverso tutti gli schermi della mediazione.Dove prima l’immagine aspirava ad imitare la natura è avvenuto un rovesciamento simulacrale, 
come un’inversione del mito di Pigmalione dove sono la natura ed il corpo ad essere tesi verso il raggiungimento dello stereotipo, sottoposti a rituali estenuanti in cui l’ornamento, pur perdendo tutto il suo contenuto sacro, torna ad una esangue valenza simbolica di accettazione sociale caratteristica delle decorazioni tribali, come se il corpo nudo ed antiestetico non avesse diritti sociali, dove questi si scambiano economicamente in una sfera di appagamento sensoriale di superficie. In una distorta equazione tra verità e bellezza stereotipa, mediata dalla paranoia dello sguardo e dalla comunicazione di massa, l’unico ideale comune sembra essere la rassicurazione dell’occhio.
Ansie e inquietudini attraversano uno spazio epidermico dall’introspezione chirurgica ad una tormentata estroversione cosmetica che rende impenetrabile il soggetto, deformandolo 
tra l’aspirazione, spesso inverosimile, al modello e la perversione ansiogena dell’apparire. Gli strumenti di Yael Plat catalizzano quest’ambivalenza con un rassicurante candore asettico, incarnando, tuttavia, le ossessioni del soggetto desiderante.
REDHA SBAIHI
Lo sguardo quotidiano è immerso in un astratto spazio d’uso che, come sosteneva già Benjamin agli inizi del secolo scorso, è uno spazio di distrazione, dove ogni oggetto non 
focalizzato dallo scopo prosaico dei nostri gesti quotidiani sparisce in uno sfondo di indistinzione.
L’artista algerino Redha Sbaihi, con ludica leggerezza ad un tempo infantile e complicata da prassi e strutture metaforiche del linguaggio artistico contemporaneo, opera spostamenti 
surreali sfruttando l’energia potenziale formale e semantica degli oggetti – come in “Tormento” – o dello spazio – come in “Senza Titolo”, dove lo spazio è sprofondato oltre il pavimento 
che intrappola una ragazza sorridente mentre ci osserva dal suo luogo illogico e infinitamente moltiplicato dagli specchi.
Anche nel lavoro fotografico “Maledetta Primavera”, un commemorativo mazzo di fiori posato probabilmente sul ciglio di una strada, in primo piano su un comune paesaggio privo di 
particolari qualità estetiche, subisce lo stesso spostamento tragicomico attraverso il titolo mutuato dalla canzone popolare, divenuto a sua volta locuzione di uso comune.Con le dislocazioni di Sbaihi, semplici oggetti e spazio vengono riqualificati fantasticamente insieme alla nostra immaginazione visiva.
VALTER LUCA SIGNORILE
La stanza di Signorile è l'esperienza di attraversamento lucido di uno spazio onirico. Valter Luca Signorile tenta di regredire all’origine stessa, ineffabile, del simbolo. Come in un teatro delle crudeltà, si spoglia di tutte le significazioni e superfetazioni culturali per tornare ad una cerimonia primordiale di primi segni e feticci. E’ un tentativo – una prova, nella sua estensione pregnante che implica il sacrificio – di rinvenire gli archetipi nucleari dei miti, intorno a cui vorticano le parole dei testi sacri di ogni religione che non potranno mai nominare i veri nomi degli dei.Nella sua regressione ancestrale, la coscienza torna ad istinti che la connettono immediatamente alla natura, dove tutte le voci e i suoni sono oltremondani e mitici. In questa notte è possibile sentire e patire comandi divini, come Abramo udì l’ordine di lasciare la terra dei padri per nascere ad un nuovo destino. Lekh – “vattene” - non è che la sostanza. 
Qarà, in ebraico, è la voce di questa chiamata, la manifestazione della volontà divina con la stessa potenza creatrice di fato del primo Verbo; inudibile, capace di dissolvere il soggetto che sente il comandamento risuonare in un tuono insostenibile dentro di se come significato e destino della propria diaspora nella storia e di tutto quanto il cosmo, in un istante estatico in cui la voce demiurgica è luce ed il soggetto è quel cosmo rivelato.
MARIALUISA TADEI
Tutto il cosmo nasce manifestandosi, appare mentre si apre il grande occhio in cui si specchia. Un occhio onnisciente, primigenio, che ancora non percepisce perché è vitreo, 
trasparente a quanto vede e conosce prima ancora che la luce se ne separi, dotato di uno sguardo tetico per il fenomeno universale che egli stesso crea dischiudendosi.Lo splendido mosaico di Marialuisa Tadei sembra mostrare l’impossibile per la nostra vista degradata alla percezione sensibile. Ci mostra la scena indicibile di quella prima apertura demiurgica, lenta e immemorabile, che incanta con una bellezza assoluta 
in cui anche noi non possiamo rifletterci , ma solo essere sedotti in un evento totale.Il movimento luminoso delle tessere attrae la nostra coscienza ad una velocità infinita attraverso le galassie e l’origine delle stelle. Tadei ci conduce, come Dante condotto da 
Beatrice alle luminosità insostenibili del Paradiso, attraverso le profondità della sua iride cosmogonica, in uno spazio ancora in formazione che raccoglie i nostri sensi con le sue ciglia; tanto seducente da insinuare il sospetto che dio sia donna.
RITA VITALI ROSATI
Con quest’immagine di equilibrio quasi neoclassico, Rita Vitali Rosati offre una romantica e, al tempo stesso, contemporanea versione delle nature morte secentesche, che materializzavano 
le riflessioni sulla morte di personaggi contemplanti. Il fiore, metafora lirica e immagine di spostamento dell’essenza femminile, è un memento mori offerto con vulnerabile tenerezza, che ha la precisa intenzione di muovere sentimenti nell’animo dell’interlocutore. Una donna senza volto, con un’identità incompleta – pertanto assurta ad idea universale – sembra offrire in dono la propria esperienza come testimonianza, in un’immagine che fa convivere in armonia estetica 
vita e morte.La metastasi patologica richiamata dal titolo è la metonimia di quel cancro ontologico che ognuno di noi porta dalla nascita, la nullificazione che accompagna qualunque vita votata 
all’incontro con la sua finitudine, come qualcuno che ci segue e ripete tutti i nostri gesti svuotandoli di senso. Le elegie di Rita Vitali Rosati accolgono questo senso di seduzione fatale trasfigurandolo in una passione condivisa.
FULVIA ZAMBON
Domino Sugar fu la maggiore raffineria di zucchero di Brooklin, ormai parte, oggi, dell’archeologia industriale della città. Come ogni grande industria, ha connotato la rete di relazioni e il tessuto urbano del suo territorio sin dalla sua nascita ormai storica. Salvata dalla bulimia di spazio di un’era postindustriale priva di memoria, è diventata il senso e il segno culturale di intere vite spese all’interno di questa raffineria dell’East River. La sensibilità di Fulvia Zambon avverte le tensioni e le scosse dinamiche del territorio in cui vive (Fulvia può vedere la Domino Sugar dalla sua finestra) dove il monopolio capitalistico dello spazio si scontra con chi lo ha vissuto, coloro a cui appartiene 
in un senso più profondo; una proprietà non sigillata astrattamente con il segno del dollaro su un contratto che notifica il negozio di volumi strutturati con scheletri portanti e pareti di banconote più o meno trasparenti.Questa tensione sul baratro di un’identità precaria si personifica, in modo quasi medianico e magico, in figure surreali fortemente drammatiche che popolano e attraversano le metropoli come geni del luogo: donne che urlano il dolore della polis come retaggio urbano di una mitologica Madre Terra, con una prole semiabortita, deformata e incompiuta eredità genetica del genius loci.
esposizione parallela dal 4 luglio al 2 agosto presso il
Monastero Chiesa Beata Vergine delle Grazie della città di Villafranca Piemonte
NEWS esposizioni dal'94

enpleinair

youtube myspacemaiolight enpleinair2 enpleinairbook