Luigi
Stoisa testo di Michele Bramante,2009 Divenuto noto a livello internazionale per l’uso inedito del catrame come mezzo d’espressione, Luigi Stoisa ha continuato le sue sperimentazioni sospinto da un anelito postmoderno e postmediale di nomadismo eclettico fra le tecnologie possibili, senza mai subordinare la qualità estetica ad uno sperimentalismo incontrollato. Una lettura possibile attraverso la lunga carriera dell’artista, può orientarsi proprio sull’analisi dei materiali che hanno incarnato la sua produzione. Il principio implicito nelle sue colate di catrame è il livellamento caotico dovuto alle forze fisiche di gravità e disgregazione che tendono alla massima dispersione delle energie su un unico piano entropico, un magma indistinto senza oggetti né nomi, un corpo pieno e infinito senza soggetti possibili che lo abitino. Uno dei suoi capolavori più noti, conservato alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, rappresenta il volto caravaggesco del Narciso liquefatto e deformato in una fuoriuscita di catrame fluido da un barile danneggiato. Nel dipinto del Caravaggio, il mitico Narciso, innamorato della propria bellezza, si riflette sulla superficie ferma e scura di un lucido specchio d’acqua in una chiusura autistica. Il semicerchio delle spalle e delle braccia dell’eroe, raddoppiato nel riflesso, insieme ad un gioco di luci crude che emergono dalla diffusa oscurità accendendo improvvisamente la pelle del ginocchio come una massa nucleare all’interno del cerchio, creano una sorta di astratto simbolo esoterico della soggettività che anticipa l’idealismo romantico, un io universale perfettamente realizzato. Dipingendo precariamente il volto del Narciso sul fluido, e lasciando al principio di entropia il processo attivo di distorsione, Stoisa scatena le eccedenze del soggetto e di una coscienza chiusa, estetizzando le ansie della critica decostruttiva rivolta contro ogni monumentalità dell’io o dell’istituzione. Le inclusioni di statue classiche nel liquame bituminoso estendono il commento e la critica alle convenzioni dell’arte con una perfetta catàbasi dadaista (i baffi sulla Gioconda di Duchamp) il cui esito, a differenza dell’avanguardia storica, suggerisce un nuovo canone barocco per la bellezza non esiliata. I linguaggi di Stoisa sono metaforici in più di un senso. Una teoria della filosofia linguistica descrive il mondo conosciuto come una piattaforma di concetti e parole. Dal centro alla periferia, questo piano mobile della nostra conoscenza è attraversato da scosse che ne costituiscono la motilità, pieghe fluide sui cui epicentri tellurici vibrano le nozioni e la logica del linguaggio, fino ad identificarsi con parole quasi magiche ai margini estremi della nostra ricchezza linguistica. Foreste incantate intorno al borgo medievale. Anche Ferdinand de Saussure, padre dello strutturalismo, distingueva l’astrazione sintattica e grammaticale, che chiamava Langue, dalla prassi spontanea della Parole, l’uso pratico delle parole che, negli interstizi della cultura istituzionale e al di sotto di essa, costituisce lo slittamento e la trasformazione della morfologia e della semantica della lingua. Una instabilità implicante una necessità quasi metafisica, causata da una divergenza essenziale tra il significato del segno per noi e il senso sempre eccedente della realtà. Sul piano strutturale e sincronico scoperto da de Saussure, questa divergenza è rappresentata dalla figura retorica della metafora. Sono le somiglianze e i rapporti analogici nelle nostra intuizione che realizzano gli slittamenti, a volte anche inconsciamente, addirittura per ignoranza, o per saggezza popolare come nei proverbi, ovvero con un preciso intento simbolico ed evocativo come nelle formule magiche della poesia. Con le loro eccedenze materialistiche rispetto al soggetto e alla forma, le opere di Stoisa creano metafore loro proprie e immagini della figura stessa della metafora, metafore di metafora, immagini di simboli e simboli di immagini, quasi in una vertigine simulacrale.Riprendendo l’analisi del medium, discorso privilegiato dal principio per una lettura dell’opera dell’artista, è possibile seguire le mutazioni del corpo pieno - il continuum indistinto - nell’adozione della luce elettrica secondo l’interpretazione datane da Marshall McLuhan nel suo “Gli Strumenti del Comunicare”. L’elettricità addomesticata per la comunicazione diventa, per McLuhan, la quintessenza del suo motto “il medium è il messaggio”. Il flusso elettrico è messaggio senza contenuto che ha provocato una radicale trasformazione sociale nel momento in cui ha connesso tutti gli uomini alla velocità della luce, in quello che per la prima volta egli chiamava villaggio globale. Al di là dell’ottimismo dichiarato nella sua teoria, è evidente che nella soluzione finale l’uomo viene catturato in una sorta di elettrosfera della comunicazione, con tutte le criticità che la cultura contemporanea si trova ad affrontare. Ancora una volta, in questa massa aggregata di globalità, Stoisa crea una zona di intensità resistente. Il suo uso dell’elettricità e della luce al neon non crea connessioni ma relazione, come se nel caos di elettroni qualcuno accendesse la lampadina in una stanza per guardare meglio negli occhi della persona amata. Appunto un’apertura relazionale sembra caratterizzare l’ultimo esito della ricerca dell’artista. Una certa poetica critica, intrapresa da un gruppo di artisti impegnato anche politicamente nella seconda metà degli anni ’60, rivolse un’attenzione analitica ai condizionamenti esterni sui significati di un’opera d’arte. Tale critica decostruì la pretesa autonomia dell’arte in favore di una maggiore coscienza di un’eso-struttura interpretativa per il valore estetico, dell’aspetto eteronomo influente, ovvero di una valutazione preconcetta definita dall’istituzione artistica. Il luogo, il territorio e le istituzioni che fanno da cornice all’opera, ne sanzionano a priori dei significati di valore, allargando così potenzialmente il campo di intervento di quegli artisti impegnati nell’analisi. Stoisa, dismettendone la critica decostruttiva, assume nel suo lavoro site specific l’ampiezza di tale campo. La sua azione comincia con una mappatura del luogo mirata al riconoscimento dell’identità del territorio in cui interviene, con una prossimità esterna affine al lavoro di un antropologo o, meglio ancora, di un sociologo. L’ Abbazia di Santa Maria, realizzata a partire dal VII o VIII secolo, età a cui sembra dover risalire l’edificazione della cripta, costituisce senz’altro uno dei più importanti connotati culturali della fisionomia della città di Cavour. La mela ne rappresenta invece l’aspetto economico. L’architettura di una città, fatta di pietre e di relazioni umane, si fonda sulla sua maggiore risorsa economica; per la città di Cavour, appunto, la mela assume questa importanza, evidenziando, peraltro, una stretta connessione fra l’architettura del territorio (intesa in senso ampio) e la generosità della natura che la sostiene. Questo è certamente il messaggio che la pianta dell’Abbazia, stesa su uno spesso piano di mele, vuole comunicare. Fondamentale è la scelta dell’estensione di riferimento per la mappatura del luogo. A differenza di un confine più vasto, la comunità territoriale consente una comunicazione senza mediazioni, una sorta di biocomunicazione che mette gli abitanti in rapporto diretto con il discorso artistico attraverso la scelta di segni immediatamente riconoscibili. La continuità della natura dalla terra all’interno del luogo culturale e la scelta di segni e simboli raccolti sul posto, rendono l’opera d’arte di Stoisa, per la città di Cavour, un nodo con dimensioni plurime all’interno delle reti di relazioni. |
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Carla
Crosio testo di Michele Bramante, 2009 L’artista vercellese Carla Crosio vanta riconoscimenti nazionali ed internazionali con mostre personali e partecipazioni a collettive in diversi Paesi, oltre a collaborazioni eccellenti con critici come Gillo Dorfles, Angela Madesani e Tommaso Trini, per citarne alcuni. Le sue installazioni coniugano una monumentalità quasi monolitica, pesantemente contingente e terrestre, di un corpo pieno e grave, ma incompleto, con una pregnanza simbolica immateriale ed immaginifica, evocando - in chiave contemporanea e informale - una strategia espressiva quasi giottesca. La seduzione estetica delle sue opere nasconde un coinvolgimento allo stesso tempo straniante e conturbante, una sensazione di vicinanza eccessiva che non raggiunge immediatamente la zona conscia dell’esperienza, ma si insinua come un presentimento. Lo spettatore è affascinato e al tempo stesso sottilmente a disagio per un perturbante ritorno di investimento sensuale che rende mobili, inquieti e inquietanti, le riflessioni personali e i racconti intimi incisi dall’artista sulle superfici e negli organi delle sue opere. Con l’astrazione eccentrica di “Ombra Pericolosa” - mutuata dalla mostra newyorkese del 1966 che esponeva Bourgeois, Hesse e Kusama - Carla Crosio rappresenta l’invasione bulimica e melanconica di spazio. All’interno di un ambiente limitato e ristretto, l’ombra estende il suo male vischioso e opprimente coprendo e divorando materia e coscienza, riducendo claustrofobicamente lo spazio vitale positivo. L’incontro sinistro e minaccioso per lo spettatore, che riconosce la fonte di quel nulla invasivo nella propria follia, occlude lo spazio per la riflessione costringendo ad una reazione immediata per la propria esistenza. Il luogo in cui l’opera esercita la sua forza vitale, si comporta, tuttavia, come una struttura linguistica che acquisisce nuovi termini, modificandone il senso secondo il proprio ordinamento. Nella pacata ambientazione dell’Abbazia di Santa Maria di Cavour, pregna di sacralità culturale e di valori storici e archeologici, con le sue rovine che modellano un’atmosfera antica e fuori dal tempo, il pericolo che sovrasta la ragione e le possibilità umane viene inibito, depotenziato dall’intensità spirituale e naturale allo stesso tempo che satura la corte dell’Abbazia, dove l’onda nera appare neutralizzata di fronte ad un nuovo sublime, quello della trascendenza storica e religiosa dell’uomo. Ciò che supera la persona nei suoi desideri, nella presenza dell’altro e nella sua spiritualità, costituisce il fondamento di una speranza per la dominazione di un’angoscia esistenziale. |
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versione
Inglese testo di Mauro Comba testo di Maria Vittoria Berti video di Federico Galetto |
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