Il termine colore ha origine dal latino color, coloris e si sviluppa dalla radice del
verbo celare, nascondere. Il color è infatti una sostanza che copre qualcosa:
pietra, stoffa, mattone, legno, metallo, carta, tela... fino al prodursi del colore
virtuale che invade i monitor e le nostre esistenze.
È dal Medioevo che i colori assumono un significato simbolico e, ancora oggi, nelle liturgie,
i paramenti d'altare e le vesti dell'officiante assumono un significato in relazione alle
occasioni rituali.
I colori assumono significati e significanti diversi in relazione ai contesti culturali e la
loro valenza verbale esplicita chiaramente uno stato dell'essere. In tal senso si dice perdere
il colore per 'impallidire' e riprendere colore per 'rianimarsi'.
Si può anche diventare di mille colori, nei momenti di turbamento o d'imbarazzo.
Il significato di colorito del viso è molto vicino a quello di colore nel senso di razza:
una persona con la pelle nera è detta di colore. Dare colore a una cosa significa conferirle
l'apparenza della verità o viceversa; raccontare un fatto contaminandolo con particolari
inventati per renderlo più interessante. Un uomo privo di colore è privo di vivacità e di
prontezza, mentre farne di tutti i colori nonché dirne di tutti i colori significa assumere,
nell'agire e nel parlare, atteggiamenti esagerati, contraddittori, bizzarri e anche
fondamentalmente sbagliati.
Le moderne ricerche psicologiche sono soltanto una delle modalità di indagine sulla nostra
percezione.
La scienza individua percorsi di analisi fondate su concezioni culturali, non potrebbe essere
altrimenti. L'oggettività del colore e, più in generale, della percezione dei sensi é molto più
complessa dei modelli che la scienza ha tentato di semplificare fino ad oggi; pertanto, anche
quelle ipotesi che tengono conto dei più recenti sviluppi della neurofisiologia della visione
sono ancora, indubbiamente, di una ingannevole semplicitá, pur essendo utili a superare le
antiche ed obsolete concezioni.
Ippocrate di Kos (V secolo a.C.) scrisse:
"...e dal cervello e soltanto dal cervello prendono origine i nostri piaceri, la gioia, il riso,
il gesto, come pure la tristezza, il dolore, la depressione, le lacrime. Attraverso il cervello
pensiamo, vediamo, ascoltiamo e distinguiamo il bello dal brutto, il male dal
bene...".
Purtroppo la lezione di Ippocrate di circa duemila e cinquecento anni fa, con cui ebbe inizio
lo studio dei processi mentali, é stata per molto tempo dimenticata. Nella cultura della Magna
Grecia, oltre alla controversia tra occhio come trappola di luce, e occhio come faro dell'anima,
venne proposta anche una posizione intermedia che attribuiva all'occhio la funzione di ínterfaccia
tra universo esterno e mondo interiore, capace di tradurre l'informazione luminosa che viene
recepita dall'occhio, e renderla comprensibile alla ricerca di riconoscimento dell'informazione
realizzata dal cervello.
Gli alchimisti medioevali ritennero invece che tale netta separazione tra oggetto e soggetto,
he si riflette poi nel tentativo di scindere quantità da qualità osservate, non fosse umanamente
concepibile. Infatti per l'alchimista sia la ricerca della pietra filosofale, sia la trasformazione
in oro dei metalli non nobili, fecero parte di un sistema unitario di indagine rappresentato
dall'uroboro, il serpente che si mangia la coda, simbolo del fatto che intenzioni mentali e forze
naturali si integrano per trasformare la realtà in una unità inscindibile e perfettibile.
La scienza classica, perseguendo il paradigma meccanicistico di Descartes, ha quindi costruito
un'ottica geometrica in cui i raggi inesistenti di luce descrivono una costruzione fisico-matematica
della percezione; si perviene in tal modo ad un modello di ottica senza sguardo, che non presuppone
l'esistenza di un reale osservatore che vede tramite le proprie istanze biologiche, le quali
caratterizzano il funzionamento genetico del cervello umano.
Anche quando si capi che la radiazione luminosa é composta da onde elettromagnetiche (famosa a
questo proposito fu la memoria sui colori di J.M. Maxwell - 1860), non si abbandonò il riferimento
ai raggi di luce; si disse infatti che essendo le radiazioni visibili di lunghezza d'onda relativamente
corta, il modello dei raggi poteva essere pur sempre accettato e in sostanza, nella concezione
meccanica ed oggettivista della scienza, al cervello rimase la sola funzione di raddrizzare nel
verso giusto le immagini, già definite sulla retina dell'occhio; solo oggi comprendiamo come tale
ipotesi, la quale assume che la funzionalità della retina sia in pratica quella di uno specchio e
l'occhio sia paragonabile ad una camera oscura con una fenditura aperta all'ingresso dei raggi di
luce, sia servita proprio per definire la possibilità generale di ammettere una netta separazione
tra soggetto ed oggetto della osservazione. Sulla retina dell'occhio non si impressiona in effetti
alcuna pre-descrizione speculare del mondo esterno: è il cervello che analizza ed interpreta le
variazioni di intensità e frequenza tradotte in segnali chimici ed impulsi nervosi e le trasforma
in costrutti mentali tramite il funzionamento biochimico di varie aree cerebrali che integrano
l'informazione recepita dall'esterno con l'informazione memorizzata in precedenza sulla base di
una determinante interpretazione ereditata geneticamente. Quindi, é importante ricordare che gli
stessi sviluppi della scienza hanno contribuito a definire una rinnovata concezione della percezione,
che in certo qual modo si riconnette al pensieno di Ippocrate di Kos e di
Platone.
In primis la comprensione che la luce non é composta di raggi, ma di onde/particelle che
hanno un comportamento probabilistico come conseguenza del Principio di indeterminazione di
Heisenberg (1927).
Tale Principio, base della moderna Meccanica Quantistica, ha infatti contribuito a
mettere in dubbio la validità di molti presupposti fondamentali della Meccanica Classica di cui
Newton e Descartes erano stati tra i principali fondatori. Edwin II. Land
(che nel 1937 inventò e
commercializzò il sistema fotografico a colori Polaroid con processo di sviluppo istantaneo) capì
che é il cervello e non l'occhio quello che vede i colori e suppose che la corteccia visiva operi
un confronto di valori di intensità e di frequenza al fine di determinare la categoria mentale del
colore che vediamo quale significazione prescelta dal cervello.
Land chiamò Retinex (combinazione di retinal e cortex) la sua innovativa teoria sulla formazione
cerebrale del colore, proprio per indicare che le informazioni sulle condizioni di illuminazione e
frequenza, recepite dalla retina, vengono elaborate come confronto tra varie aree della corteccia
cerebrale e poi integrate in una unica percezione visiva colorata. Oggigiorno le teorie neurofisiologiche
della percezione del colore sono quindi ancora nella fase di ricerca di nuove ipotesi per definire
modelli scientifici più adeguati alle nuove conoscenze sul funzionamento cerebrale.
Possiamo dire che l'azione complessiva della formazione cerebrale delle immagini inquadrate nello
spazio/tempo della percezione assume il carattere essenziale di una indagine probabilistica effettuata
dal cervello, che viene controllata da riferimenti mnemonici e regolata dalla informazione genetica.
Quello che vediamo non é quindi una copia della realtà osservata, in quanto le immagini rappresentano,
la probabilità delle nostre interazioni con l'ambiente circostante prodotta dal cervello allo scopo
di anticipare cognitivamente le nostre azioni, favorendo la determinazione creativa di scelte
intenzionali considerate soddisfacenti e pertinenti alla sopravvivenza ed evoluzione del proprio
essere.
Il mondo lo vediamo cosi come lo vediamo, perché siamo uomini e non perché sia oggettivamente cosi.
La diretta conseguenza di tutto ciò, direbbe Fritjof Capra (Fisico, Economista e scrittore austriaco)
enuclea una vasta serie di affinità tra il quadro che sembra emergere dalla fisica contemporanea e
gli insegnamenti delle religioni orentali e i relativi sistemi filosofici L'universo sarebbe la
manifestazione di un unico campo astratto di intelligenza universale, che darebbe origine ad ogni
forma e le sue parti sarebbero intimamente connesse a formare un grande organismo unitario e il
colore è soltanto una delle sue manifestazioni di cui l'arte si serve da secoli per
rappresentare visioni del mondo.
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Partendo da questo excursus scientifico (assolutamente soltanto riassuntivo) e indagando intorno
ad un discorso sul colore il Mediterraneo è all'origine di problemi e riflessioni sull'uomo ancor
oggi attuali come uno dei miti e delle epistemologie fondativi del mondo occidentale, assumendolo,
quindi, come luogo centrale del transpersonale etnico nella nostra civiltà.
Attorno ad esso del resto c'è stato lo scontro tra le culture fondamentalista e la grande apertura
alla cultura dello scambio, della relazione, della condivisione e del crogiolo delle differenze.
Da sempre crocevia di mercanti, pirati, avventurieri, esploratori, il Mediterraneo è la culla
della civiltà occidentale, specchio di antiche culture che qui si sono confrontate e relazionate,
mescolando razze ed informazioni, contaminandosi ed aprendosi a proficui rapporti: ancor oggi,
dalla Spagna alla Grecia, l'arco del Mediterraneo conserva tracce di antiche civiltà nelle numerose
raffigurazioni rupestri, notevoli soprattutto nella penisola Iberica, a testimoniare la vitalità
delle società preistoriche insediate ai margini delle sue acque, fonte di vita, di ricchezza e di
prosperità. Centro di gravità geografico e culturale per le terre che vi si affacciano, mare degli
iberici, degli italici, degli egizi, dei greci, dei fenici, il Mediterraneo è un bacino di
straordinario fascino ambientale che, per la diffusa luminosità dei suoi cieli, per la bellezza
a tinte forti degli scenari naturali, per l'azzurra distesa del mare in contrasto con speroni di
roccia e terra arsi dal sole, ha ispirato scrittori, poeti, artisti e pittori che si sono stabiliti
sulle sue sponde facendone il soggetto di molte delle loro opere. Il periodo tra la seconda metà
dell'ottocento e la prima metà del novecento rappresenta l'epoca della scoperta delle bellezze del
mare nostrum ad opera di artisti soprattutto della vicina Francia e della Provenza:
Courbet, Van Gogh, Gauguin, Cézanne, Renoir, lo stesso cupo Munch vi soggiorno'
per un periodo e poi Matisse, Braque, Bonnard, Mirò, Picasso, Dalì, Tàpies, etc.
per citarne alcuni.
Tutti hanno impresso nella mente e nel corpo il ricordo del Mediterraneo.
Luogo magico, memoria collettiva di popoli diversi, il Mediterraneo costituisce per le sue genti
un imprinting ambientale riconoscibile e tramandabile, la traccia di un vissuto condiviso, una
matrice intellettuale e psicologica fortemente identitaria.
Con questi presupposti, queste tracce labili e al contempo consistenti, vogliamo percorrere un
altro tratto di strada lasciando, come sempre agli artisti, il compito di aiutarci a vedere/celando
con i loro colori quello che, giocando con le parole, appare nascosto.
Settembre 2007 Marco Filippa
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