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I LINGUAGGI DEL MEDITERRANEO CMYK 2008 

testi di Marco Filippa, Federica Tammarazio, 
Claudio Cravero, Domenico Papa, Marga Perera

immagine Andrea Chidichimo
Proprio della ricerca di Andrea Chidichimo è il percorso rigoroso che tende ad approfondire i temi 
dell'immagine e della pittura, nel reciproco rapporto di legittimazione. La pittura rende possibile 
l'immagine e l'immagine chiede alla pittura d'essere resa sensibile. 
Nell'indagare il legame tra pittura e immagine Andrea Chidichimo si interroga sulla necessità che 
l'una è per l'altra, ma in primo luogo, sperimentando una sottrazione sia dell'una che dell'altra, 
fino al limite estremo dell'assenza. Dipinge spesso, infatti, senza usare gli strumenti tradizionali della pittura, 
ma aiutandosi con processi casuali come può esserlo il fumo di una candela o i prodotti di una 
combustione. In ciò recupera una radice antica del dipingere, quella di un popolo primitivo o di un bambino. 
D'altra parte l'immagine risente di un'origine caotica e imprevedibile, presentandosi vicina 
all'astrazione. È possibile ancora scorgere delle figure, animali o oggetti, ma scompaiono non 
appena le si fissi e quel che è un dettaglio riconoscibile diviene un guizzo di colore. 
La tecnica utilizzata non è intesa, però, come un espediente teso a ottenere un risultato d'effetto, 
ma piuttosto come l'esercizio protratto, lungamente studiato, per quella che si potrebbe definire 
un'educazione del gesto. E dietro di esso, educazione del respiro e dello sguardo. 
È una pratica, per qualche verso ascetica, utile a mondare la creazione di quanto non è strettamente 
necessario. In questo modo, l'immagine dipinta diviene il diaframma tra vicino e lontano, tra grande e piccolo. 
La pittura è tensione protratta verso ciò che infine rimane inafferrabile. 
Verso ciò che si nasconde dietro una sola pennellata. L'opera è metafora della lontananza, di una 
ricerca sempre diretta a qualcosa che non è nell'opera ma cui l'opera rimanda. 
Lontananza definitiva e incolmabile, dal momento che nel movimento del togliere quanto non è indispensabile 
si finisce per imbattersi nell'unica verità che all'artista, ad ogni vero artista, è dato conoscere e sulla quale 
tuttavia gli è concesso di indugiare, ovvero che tra pittura e immagine è l'arte stessa a non essere necessaria. 
Domenico Papa
immagine Ibrahima Diaw
Nato a Rufisque - Dakar (Senegal) il 17/04/1972
Ibrahima Diaw è un'artista autodidatta originario di Dakar, Senegal. 
La sua attività artistica ha inizio nel 1992/3, e prosegue in Italia, paese 
in cui si trasferisce nel 1997.
Il linguaggio espressivo di Diaw si ispira alla musica e alle leggende 
tradizionali africane, che l'artista interpreta attraverso l'uso di linee 
stilizzate, quasi infantili, e attraverso l'suo dei colori acrilici.
Diaw alterna un approccio più realistico, influenzato dal paesaggio africano 
e dai cromatismi caldi e naturali, a una visione più simbolico-intimista, 
in cui ogni figura rimanda a un immaginario malinconico e poetico.
Oltre a numerose personali, nel 2006/7 ha partecipato all'esposizione 
"In sede. Qui si sta bene" 
presso la Sede Divisione Servizi Culturali della Città di Torino.
Federica Tammarazio
immagine Veronica Dell'Agostino
Nata a Sondrio nel 1981, Veronica Dell'Agostino si trasferisce a Milano dove si 
diploma in fotografia nel 2004, presso l'Istituto Europeo di Design.
Nel 2007 è seconda classificata al Premio Nazionale di Fotografia Riccardo Pezza 
"Il racconto di un luogo", è tra i selezionati della Biennale dei giovani artisti 
dell'Europa e del Mediterraneo e riceve una Honorable Mention per la categoria 
Fine art professional agli International Photography Awards. Nel 2008 partecipa 
alla XII edizione della Biennale dei Giovani Artisti dell'Europa e del Mediterrano.
Veronica Dell'Agostino si esprime attraverso l'uso della fotografia, spesso associata 
a brevi filastrocche da lei stessa scritte, ed è spesso la protagonista delle sue immagini. 
Trae ispirazione dalle fiabe e dal mondo infantile, contaminati da una visione macabra ma 
al contempo ironica. 
Le sue opere creano un originale connessione tra l'azione performativa, i quadri teatrali 
e il racconto fiabesco: la cura e l'attenzione al particolare, così come alla creazione 
delle ambientazioni sur-reali, danno vita ad un universo unico, sospeso, onirico, 
ma assolutamente credibile e logico.
Federica Tammarazio
immagine Carme Garolera
"Le temps reviens"
La propuesta que presenta Carme Garolera me ha hecho pensar en las bellísimas 
cartas que Hölderlin escribía a su madre con sus reflexiones filosóficas. 
¡Cuánta belleza y cuánto amor compartir con su madre de forma sencilla la complejidad 
de sus pensamientos! Se puede aprender más de esas cartas que de sus tratados filosóficos. 
Pero la riqueza de la literatura epistolar de los siglos XVIII y XIX es ya una especie 
de arqueología literaria, y esta percepción de un tiempo pasado es aún más profunda si 
analizamos las transformaciones sociales y los cambios en las formas de comunicarse que 
han ido introduciendo el teléfono e internet. Y sobre este fenómeno reflexiona 
Carme Garolera, sobre los cambios en los canales de comunicación personal en el mundo 
contemporáneo.
La obra que presenta es un trabajo a partir de tarjetas postales que ha ido recibiendo 
de sus amigos a lo largo de unos veinte años. Se trata de correspondencia de las 
vacaciones veraniegas: vistas de paisajes de ensueño y de ciudades tan idealizadas 
como para recorrer miles de kilómetros para vivirlas; enviar postales es un deseo 
de compartir esa experiencia. Garolera pinta encima de todas las vistas, convirtiendo 
las postales en el soporte de su pintura, dejando visible el texto escrito y los signos 
del viaje: el sello y el matasellos, y utiliza medios de reproducción técnica para que 
sea posible ver la postal por ambos lados. Puede que las postales recuerden el trabajo 
de On Kawara, pero esto sólo serviría para situar la propuesta de Carme Garolera en el 
ámbito del arte conceptual. Recordemos que las postales de Kawara respondían a una 
planificación de enviar postales él mismo a sus amigos con un registro horario de 
alguno de sus actos cotidianos. Nada que ver con las postales de Carme Garolera, que 
fueron enviadas por sus amigos sin ninguna pretensión de que enviar una postal pudiera 
ser un acto artístico. Lo artístico empieza con la intervención de Garolera. 
Hoy se escribe menos y se habla más por teléfono, aunque con la aparición del blogging 
se vuelve a la escritura, pero con clave de acceso y emisión unidireccional, sin 
comunicación. Exhibicionismo, seducción, soledad, inseguridad, fetichismo... son algunas 
de las interioridades del blog, punto de reflexión de Carme Garolera. Y así entramos en 
las teorías de la información, en las relaciones emisor-mensaje-receptor. Garolera, como 
receptor, al pintar la imagen de la postal, decodifica parte de la información enviada 
por el emisor, introduciendo una nueva significación: retomar aquella correspondencia de 
viaje y responder ahora con su pintura a estas postales que nunca se responden porque 
nunca hay tiempo para dejar una dirección de destino fijo, porque llevan en sí mismas el 
espíritu nómada del viaje; la artista responde así a un texto que deja a la vista, un 
texto abierto, sin claves de acceso, una forma de comunicación también cada vez más escasa.
Marga Perera  traduzione di Sonia Piloto Di Castri
immagine Robert Gligorov
O.G.M.
Interno domestico, atmosfera calda ma impersonale (non ci sono quadri, oggetti, tracce umane...).
Solo due divani e un tappeto e il corpo perfetto del tuffatore. 
Giusto un po' di schiuma ed è pronto a sparire dalla scena. 
Il macedone Robert Gligorov (ex attore, fotomodello) spesso sì auto-rappresenta trasformandosi, 
mutando. Come un o.g.m. della cultura, cattura lo sguardo nelle trappole della visione, escogitate 
magistralmente con l'apparente stessa logica dei messaggi pubblicitari. 
Mancano soltanto le healine, non c'è body-copy e soprattutto non c'è mistificazione nei suoi 
giochi visivi che stordiscono l'ordine delle cose. È evidente a tutti che non pubblicizza nulla 
pur avvalendosi di strategie comunicative della cartellonistica d'alta qualità (del resto spesso, 
se pensiamo alla T.V. come diceva qualcuno, sono i programmi ad interrompere gli spot pubblicitari 
e non viceversa).
Il suo lavoro, anche in questo caso, si sviluppa sul margine della comunicazione contemporanea; 
sul filo saturo dell'immaginario collettivo colloca le sue icone provocatorie dove il senso 
slitta continuamente tra realtà e finzione, natura e cultura imbarcandoci nella condizione di 
nomadi postmoderni alla ricerca di certezze che soltanto possono formarsi adottando il caos come 
metodo che può aiutarci a muoverci nel caso. 
Cosa ci fa il tuffatore nel salotto di Elena?
Non chiedetelo a me, domandatelo a voi stessi. 
Les jeux sont faits... e l'avventura visiva già travalica se stessa annidando germi vitali nei 
nostri pensieri.
Marco Filippa
courtesy : Galleria Pack Milano
immagine Lorenzo Griotti 
GIOCANDO CON LA LUCE
L'aspetto ludico delle opere di Lorenzo Griotti ci introduce in un terreno fertile, 
dove la poesia si accompagna al design in una concezione serializzabile dell'opera 
d'arte: quella che Lara Vinca Masini definisce la linea del modello. 
L'avventura arriva dal lontano 1963 quando, con Sergio Anelli e Piero Bolla, fondo' 
il gruppo "Corpi Plastici" anticipando, per molti versi, la stagione in cui gli 
artisti preferivano chiamarsi "operatori estetici". Da quel tempo Griotti ha continuato 
a dispiegare la sua ricerca con intenti gioiosi. Il suo anti-espressionismo nutrito di 
sperimentalità (anche intorno ai materiali, penso all'uso attuale del perspex) lo ha 
condotto ai giochi di oggi. 
Il suo Villaggio, costituito da geometriche torri essenzializzate, ci riconduce ad 
un'identità primaria e incarna una primitività post-moderna che non ha nulla di minimalista 
ma deborda, invece, verso un disincantato rapporto con la luce (e la luce è colore, si sa). 
Torri di luce, mutevoli come le ombre, fluttuanti come nuvole, vive come esseri umani. 
Se penso a Lorenzo e al suo affabile e gentile modo di comunicare, ronza dolce, nelle mie orecchie, 
il suono di una canzone di Giovanni Lindo Ferretti e non fatico a pensare a un rapporto autentico 
con la natura e all'eterno dibattito tra natura e cultura ben risolto nelle sue naturali artificialità. 
Voglio concludere queste brevi considerazioni omaggiandolo citando Ferretti:
CAMMINO VOLENTIERI CONTROMANO E CONTROVENTO
TENGO LE MANI IN TESTA, GLI OCCHI BASSI
SCATTO ALLA MERAVIGLIA
I PASSI CHE SEGUONO I PASSI
    COME BAMBINO MI PIACE COSTRUIRE, STUDIARE, LAVORARE
    UN GIORNO DOPO L'ALTRO HO MOLTO DA IMPARARE
    COME BAMBINO 
NON COME GIOVANOTTO CHE GIOCA I GIOCHINI
PASSA IL SUO TEMPO A SPASSO, SPERA NEL LOTTO
MIRO AI LAMPIONI CHE S'OPPONGONO ALLA LUNA
MIRO I PREPOTENTI MIRO I COGLIONI
MIRO L'OMBRA CHE INTRALCIA LA FORTUNA
    STO SDRAIATO NEI CAMPI NELLE ORE PIU' BELLE
    A PANCIA IN SU' O IN GIU' A RIMIRAR LE STELLE

Marco Filippa
immagine Patrizia Guerresi
Sguardo aperto.
Patrizia Guerrresi Maimouna traccia un gesto rapido, un segno preciso e al contempo arcaico, 
sui volti speculari dei due maschi di colore. In Double lamin c’è, forse, un rimando (im)preciso 
all’antica filosofia cinese dello Yin e Yang. 
Le tracce bianche sui volti traducono in orizzontale la verticale sinuosa della rappresentazione 
taoista e non è soltanto questa l’unica differenza sostanziale. 
I due volti (che secondo questa interpretazione dovrebbero alludere ai due principi opposti e 
complementari) sono in realtà il medesimo volto maschile e in questo la specularità è perfetta e 
la Guerresi è artista di immagini perfette. Utilizza la fotografia come medium, stravolgendolo 
pero’ dalla sua funzione di restituzione della realtà, per porre i soggetti in una dimensione 
altra (mistica verrebbe da dire) e ponendoci in contemplazione. 
Claude Lévi-Strauss1, affermava che la prima superficie che l’uomo ha sentito l’impulso di abbellire 
sarebbe stato il corpo, inteso come involucro della propria persona e mediatore con il mondo esterno. 
Queste due teste (e non dimentichiamolo che è la medesima) sono sottratte all’orizzontalità terrestre 
per gravitare in un non-spazio dalla tonalità lieve; poste in orizzontale si con-centrano su un vuoto 
sospeso che rinvia all’esterno in un processo ciclico che potrebbe essere infinito. 
Rammento le pagine esemplari di Roland Barthes2 sul Giappone; l’analisi semiologica del tessuto urbano 
contrapposto al pieno dei Centri Occidentali rivela un prezioso paradosso di Tokyo: essa possiede sì 
un centro, ma questo centro è vuoto. 
Ancora una volta l’artista crea un’immagine assoluta, di singolare bellezza. Attraverso le nouance, 
dai bianchi al nero, ci porta in una visione spirituale; il suo colore-non colore apre uno spiraglio 
e risolve le antiche diatribe all’origine dell’eresia iconoclasta ancora oggi viva, seppur in altre 
forme, nei precetti dei vari neo-fondamentalismi. Se lo Yin e lo Yang rappresentano nel complesso le 
due forze primordiali, opposte ma complementari, presenti in tutte le cose dell’Universo allora 
possiamo guardare l’immagine con occhi aperti e vedere l’umanità sospesa in un eterna ricerca di 
sé e in questo modo, a quel che si dice, l´immaginario si dispiega circolarmente, per corsi e ricorsi, 
intorno a un soggetto vuoto che saremo noi a colmare nella circolarità dello sguardo… un po’ come dire 
che tra noi e l’opera si instaurerà un dialogo aperto se sapremo liberarci da preconcetti e finalmente 
vedere.
1 Claude Lévi-Strauss (1908), Antropologo, Psicologo, Filosofo francese
2 Roland Barthes, L´Impero dei Segni, Einaudi, Torino, 1984
Marco Filippa 
immagine Rikke Hostrup
L'artista Rikke Hostrup frequenta dal 1997 l'Accademia delle Belle Arti di Firenze, 
diplomandosi nel 2003; successivamente si iscrive al corso di 
Digital Design & Communication (DDK) alla IT University di Copenhagen. 
A partire dal 1999 inizia la sua attività espositiva in Italia e all'estero, partecipando 
a collettive e personali, sotto l'egida di importanti nomi della critica e della curatela 
internazionale. Inoltre già dal 2000 Rikke Hostrup collabora con En Plein Air, 
figurando tra gli artisti esposti in De Viaje del 2002, Soap Opera e 
One Day At A Time del 2000. 
Attualmente la sua ricerca espressiva si muove su differenti canali: il 3D, il web, 
il medium fotografico, nonché la pittura e le installazioni.
Il suo multilinguismo corrisponde ad un universo creativo ricco e diversificato in cui 
hanno un ruolo fondamentale le relazioni tra ambiente interno ed esterno, tra l'area 
della spiritualità e quella della matericità, e in cui dominano l'ironia e il 
riadattamento di elementi e situazioni dell'esistenza. 
Le ultime esperienze creative di Rikke Hostrup portano il segno della sperimentazione 
e della condivisione: alcune opere, come www.iconfess.it (2007), mutano e si evolvono 
tramite l'azione partecipata di un pubblico che da fruitore si fa co-autore, altre, 
come la serie Sign and signification (2007), indagano sulla relazione tra il segno e 
la varietà di significati che ad esso vengono attribuiti dalla soggettività degli enti 
coinvolti nel processo di comunicazione.
Federica Tammarazio
immagine Daniel Kambere Tshongo
Nato nel 1964 a Oicha, nella provincia congolese del Nord-Kivu, Daniel Kambere 
studia all''Institut pédagogique général Saint Charles Lwanga di Mulos, e 
successivamente all'Académie des Beaux-Arts di Kinshasa, dove si diploma in 
pittura nel 1986. 
Nel 1992, Kambere e Roger Botembe danno vita al progetto artistico Les Ateliers 
Botembe, con gli artisti Malambu, Matemo, Dikisongele et Freddy Tsimba. 
Questa modalità di approccio al linguaggio artistico si traduce nell'impegno 
di Kambere con l'associazione Let's protect children, al Centre de Transit et 
d'orientation des enfants ex-soldats et ex-militaires a Beni. Kambere vive infatti 
la drammatica esperienza dell'esilio, e dell'allontanamento dal suo paese d'origine, 
martoriato dalle guerre, trasferendosi a Kampala, in Uganda. 
Nel 2001 Kambere compie il suo primo viaggio in Europa, dove ritornerà per tre volte, 
attraversando l'Italia, la Francia, il Belgio, i Paesi Bassi e la Germania.
Nell'aprile 2004, in seguito a queste esperienze, partecipa al festival francese 
"La Caravane des Cinémas d'Afrique". 
Nelle opere di Kambere il tema della pace ha un ruolo centrale, rappresentato 
attraverso un'iconografia fortemente legata all'immaginario territoriale 
dell'artista nei suoi aspetti coloristici e nella sintesi simbolica, seppure 
con una vena di originalità e di innovazione stilistica che rendono le sue tele 
un singolare incontro tra cromatismo espressionista ed astrazione. La pace, 
in swahili Amani, è il centro della riflessione di Kambere, che vi si accosta
con minuzia, attenzione e dichiarato interesse per le problematiche dell'uomo, 
nella sua condizione di essere vivente. Ne è un esempio la serie dedicata agli 
uccelli, scomparsi, come sottolinea il critico Eddy Kabeya, dalla riserva naturale 
del Kivu, a causa del conflitto che ha devastato l'Est del Congo. 
Questo approccio critico nei confronti della situazione politica è d'altronde comune 
a molti degli artisti formatisi intorno all'accademia di Kinshasa, tra cui 
Cheri Samba, autore di numerose tele dal sapore pop, in cui le immagini sono 
inframmezzate da testi dai toni dichiaratamente accusatori.
Federica Tammarazio
immagine Pietro Mele
Sardegna, Italia
Il lavoro di Pietro Mele è sempre imprevedibile.
Interrogandosi sui possibili modi di guardare le realtà della sua terra, la Sardegna, 
Mele ricerca un punto di possibile azione dell'immagine filtrata, quel momento che nelle 
sue riprese sembra rivelare il "denouement", lo scioglimento dell'intreccio della trama 
su cui il suo occhio si posa. Utilizzando una sola inquadratura, proprio come avviene 
comunemente nelle videocamere di sorveglianza, Pietro Mele ritaglia e fissa l'azione 
presentando situazioni inaspettate dell'isola, una Sardegna legata agli stereotipi e ai 
forti compromessi a cui, nella necessità di una relazione con il resto del Mediterraneo, 
la stessa condizione di "isolano" è sottoposta.
Claudio Cravero
immagine Aghim Muka
courtesy Galleria Crisalis Art Net Communication Milano 
Aghim Muka è un narratore di favole, storie di realismo magico concretizzate in 
materia pittorica, scomposte narrativamente in poesie visive. 
L'artista albanese dà vita a una sorta di pittografia che trasforma i suoi quadri 
in ipertesti, costruiti per sovrapposizione di segni, forme, colori, materiali. 
Collage scultorei dove alla pittura si mescolano produttivamente carte, sassi, 
mestoli di legno, cocci, dadi, stoffe, foto, legni. 
L'artista crea pagine di un diario personalissimo, un romanzo in progress continuo, 
composto annotando pensieri, disegnando immagini vissute o sognate. Poi attacca 
materiali trovati, ninnoli della memoria, ricordi che non vuole sbiadiscano. 
Aghim buca e taglia, inserisce altri elementi; la tela perde bidimensionalità e 
confini, diventando superficie aperta, luogo tridimensionale di turgida materia, 
dove accade la vita. Alla fine la visione è complessa e densissima: ogni dettaglio 
è un ingresso in una dimensione da scandagliare, cellula connettiva del percorso 
racchiuso nell'opera.
Il lavoro di Muka non va visto singolarmente ma nell'insieme, come un affresco 
classico, dove vengono narrati cicli.
La dinamica è quella dei racconti orali, storie antiche che arrivano rotolando 
sulle parole trasmesse di generazione in generazione, affabulazioni fuori dal tempo, 
in un movimento circolare che torna sempre al centro. Sono storie di uomini e donne, 
con un cuore uguale in tutte le parti del mondo, in tutte le culture e i tempi : 
è il tempo della narrazione epica.
L'umanità nasce e muore, fa l'amore e le guerre, si commuove e uccide.
In mezzo scorre sempre una sottile linea di sangue, contemporaneamente materna e 
crudele. Femminile. Il mestruo che garantisce la fertilità, erezione e verginità, 
il neonato ancora sporco, il cuore che pulsa, la ferita che stilla, l'emorraggia 
che versa, il freddo immobile della morte.
La vita è sangue, ma anche sogno e fiaba; questa è la magica alchimia di Aghim Muka.
Olga Gambari.
http://www.aghim-muka.com
immagine Simone Pellegrini
Florilegi (In)Attuali
Simone Pellegrini è artista colto e per lui il titolo non è mai occasionale; è invece ulteriore occasione 
per definire al meglio le sue intenzioni. Intenzioni perseguite e raggiunte nel corpus della sua opera che 
s’intrecciano, inevitabilmente, con le origini dell’arte e da contemporaneo qual è… in questo senso 
Pellegrini vuole essere “originario”, più ancora che “antico”1. 
Florilegi inattuali è titolo che apre le porte all’opera perché in fondo ne è parte integrante e, infatti, 
non la spiega, l’annuncia in un certo senso. 
Florilegi é parola in disuso e il vocabolario parla di antologia ma anche di libro devozionale e l’artista 
ci avverte subito, sono inattuali. 
Appartengono al non-luogo del tempo, del corpus della sua opera. 
Opera intrisa di ritualità, supportata da un pensiero antropologico (culturale soprattutto) con connotazioni 
psicologiche che non si accontenta di soluzioni affrettate, ma ricerca e rintraccia, nel linguaggio primitivo, 
l’essenziale impregnandosi di noir matière e d’una fisiologia della traccia che ne dice la fragranza organica, 
impregnata “di sudore, di sperma, di sangue”2
Carte spolvero giallastre, slabbrate (come pelle del mondo) su cui l’artista imprime le figure con pochi colori: 
nero, rosso, di fuoco o di sangue; tracciando figure, di-segnandole, come fissasse insieme il significato e il 
significante. 
La sua opera è nel singolo lavoro, ma è al contempo dentro tutto il suo lavoro come se l’artista non 
si accontentasse di una sintesi ma lavorasse ad un corpus; come se la sua fosse una Encyclopédie dei 
valori originari dell’uomo e nelle sue pagine, attraverso i suoi segni, le sue impronte, riaffiorasse a galla 
l’escatologico e lo spirituale scovandolo proprio negli inizi, nei gesti primari intrisi di violenza e creazione. 
Le sue carte sono intrise di sostanze pre-cromatiche, 
accettano un grado zero3 del linguaggio pittorico, interessate come sono ad una narrazione non lineare, 
addizionale per certi versi, guidata da un’azione (quasi) sciamanica e del resto, rispondendo ad Ivan Quaroni 
in merito al pubblico della sua arte, Pellegrini risponde: In principio si rivolge a me. A me fa appello. 
Poi a chi ama la severità dell'ordito e disconosce il belletto. 

Ho chiesto a Simone di inviarci delle immagini del suo volto per il catalogo e ho ricevuto una piccola 
collezione di fotografie che lo colgono al lavoro, rigorosamente in b/n. Una serie di scatti nel suo studio che 
rivela molto della sua opera. 
Un’officina delle immagini in cui il colto operaio Pellegrini si muove, col suo corpo scolpito, tra i cumuli di carte, 
gli incipit affissi al muro come post-it antichi in un evidente processo di crescita dell’opera. 
Non sono abituato a pensare l’opera d’arte come necessariamente correlata alla vita dell’artista ma, 
nel suo fare, c’è processualità operativa che è la medesima che possiamo cogliere nei risultati. 
L’opera nasce stesa a terra, ma i processi generatori sono altrove, nei monotipi che realizza 
e stampa, nelle delicate tarsie quasi monocromatiche… nasce a terra e poi si eleva a parete come 
nel processo evolutivo darwiniano: l’homo erectus è la tappa precedente all’homo sapiens cosí il fare 
di Pellegrini richiede attenzione e sensibilità per intercettare l’emozione che può scaturire dai suoi lavori 
entrando nelle nostre esistenze con la sua (in)attualità.
1 KRN di Marco Meneguzzo, Galleria delle Battaglie", Brescia, 2005
2 Per Simone Pellegrini   di Flaminio Gualdoni (Cardelli & Fontana artecontemporanea)
3 Roland Barthes – Il grado zero della scrittura – Einaudi

Marco Filippa
immagine Yael Plat 
Nel suo viaggio attorno alla dimensione domestica, dopo le sculture è arrivato il video. 
Per l'artista israeliana Yael Plat la casa è luogo mentale e architettonico, insieme 
rifugio e gabbia, uno spazio a parte dove il sé, consapevole o inconsapevole, va in scena. 
La casa è la forma su cui ha ragionato, ridefinito, modellato negli ultimi due anni. 
Nelle case ci si specchia, quasi fossero un ritratto dell'anima, ci si chiude per 
manifestarsi come fuori non si può. Tante case di dimensioni e materiali diversi, 
appese a parete o poste su piedistalli in legno, garza, cemento, paraffina, cartoni 
da imballo, plexiglass. Sono case dipinte, ripiene di cotone, legate con spaghi e corde, 
luminose, ricamate, chiuse da griglie. Diventano scrigni di parole scritte, fotografie, 
lampade accese nel buio, lume per ricordi che non devono sbiadire. Così è la protagonista 
del suo recente video "Behind close  doors", una ragazza che vive il suo dramma tutto in 
una stanza, una serie di ore dove presente e passato si intrecciano, reale e sognato 
creano un flusso visivo narrato per immagini, composizioni come quadri. All'inizio è 
la violenza che si scatena, originata dalla sua disperazione esistenziale. Un'azione 
che si riversa sulla stanza come fosse un organismo vivente, travolgendola. 
Litiga con muri e oggetti, beve, spacca. Ogni flash back, ogni tuffo nella memoria, ci 
fa uscire fuori, nel mondo vissuto all'esterno, come quando il profilo di un quartiere 
si riflette sul volto della giovane. La furia lascia il posto alle lacrime, una catarsi 
liberatrice visualizzata con gocce e flussi di una cascata. Poi, finalmente, arriva la 
calma, la rabbia si placa, il respiro si regolarizza, quello della ragazza e della 
stanza con lei. Sulla parete la protagonista scrive con la cenere la frase 
"Il dolore è il padre della creazione". Quello che rimane, la traccia di una crescita 
appena avvenuta.
Olga Gambari
immagine Vladimir Rajtman
Russia - Germania
Le immagini fotografiche di Rajtman sembrano incontri che sfumano, relazioni che 
stanno per avere luogo o che devono ancor avvenire.
In bilico tra due Paesi, tra due identità in transito, la Russia e la Germania, 
Vladimir Rajtman restituisce segni dei vissuti con i quali si confronta, tracce dei 
luoghi esplorati e da lui compresi, frammenti di vite altrui nel pieno dell’attività 
lavorativa o colti nell’umana e passiva rassegnazione della fine.
Nell’ambito di “I Linguaggi del Mediterraneo – CMYK”, l’artista presenta 
“V avtobuse” (In autobus) e “Dedy” (Nonnetti), due momenti della quotidianità di una 
Russia che, nell’assenza di colore delle immagini, riportano al personale archivio di 
ricordi in bianco e nero che ognuno porta con sé.
Sono immagini eloquenti che restituiscono tutta la speranza di una umanità apparentemente 
negletta nella ricerca e riappropriazione del colore, della vita nella sua voglia di 
affermazione, nel suo dinamismo e forza positiva.
Gli scatti si chiudono spesso su dei volti che, con fierezza, assumono un sorriso di posa, 
visi intensi e orgogliosi di restituire tutto il loro protagonismo all’obiettivo di Rajtman. 
In altre immagini, invece, è l’artista a cogliere velocemente i gesti e quei precisi dettagli 
espressivi che delle persone fotografate sembrano confermare la loro appartenenza ad un’etnia, 
ad una comunità. Donne colte di schiena in pullman, uomini in un mercato d’antiquariato in 
pieno inverno o, più semplicemente, i saluti di due amici, sono solo alcune delle immagini di 
una più complessa analisi antropologica delle realtà vissute dall’artista, uno studio che non 
si esaurisce nel documento, ma che lavora sulla memoria, sullo stupore, sulle emozioni sospese 
nel loro essere in posa o catturate furtivamente.
courtesy Associazione Russkij Mir di Torino e Cantiere 48 
Claudio Cravero
immagine Giorgio Ramella 
Blu intenso. Blu del mare, blu del cielo. Blu dell'anima.
Un volto in primo piano invade il quadro, sul fondo di una lavagna grattata da segni 
primordiali. 
Tracce di un'analisi antropologica o semplicemente, com'è giusto che sia, un discorso 
tutto interno alla pittura. Un volto ideale (a metà strada tra un geroglifico e un 
ricordo matissiano, "sporcato" dal tempo) che non è femminile e neppure maschile ma 
proprio per questo è semplicemente, umanamente divino. 
Giorgio Ramella, nel suo ormai lungo e consolidato percorso di ricerca artistica, osserva 
un "Oriente visto con sguardo da europeo, da mediterraneo"1. Da pittore, qual è sempre stato, 
narra con la lingua del colore e dei segni educandoli ai suoi racconti visivi esteticamente 
estatici. 
Testa blu, fin dal titolo, non annuncia altro che se stessa, ma non si tratta di una 
tautologia bensì di un'assùnto primario che fa di questo dipinto una specie di frame ideale 
per un film che non esiste se non nel suo immaginario e proseguirà, molto probabilmente, in 
altri quadri. La ricerca cromatica, di rara eleganza, è il suo tratto poetico fondamentale. 
Un blu intenso che arriva dal mare e dal cielo ma in realtà appartiene all'anima, la sua certo 
ma anche la nostra. Sappiamo che ànemos significa "vento" e, senza volermi addentrare in 
speculazioni filosofiche, appare chiaro che possiamo parlare di anima del mondo (anima mundi 
la definivano i latini) che si sostanzia, in questo caso, di colore e si accampa su un nero 
sfondo sordo-opaco. 
In quest'ottica il quadro appare sempre più chiaro. Ramella offre al nostro sguardo una 
narrazione visiva scegliendo una modalità semplice, apparentemente priva di un impianto 
prospettico. C'è lo sfondo, la figura principale risolta cromaticamente e poi ci siamo noi 
che siamo fuori del quadro ma anche parte integrante dell'opera, il terzo assente che completa 
il discorso. 
Allora, se l'analisi è corretta, non resta altro che partecipare al gioco dell'arte, lasciando 
scivolare la mente altrove, verso noi stessi in fondo.
Marco Filippa 
immagine Marialuisa Tadei
Chi dorme piglia pesci
Nell’anno del colore abbiamo chiesto a Marialuisa Tadei una scultura intensamente bianca, 
un’opera del 2003. Il dormiente, è un’opera scultorea, che gioca sottilmente con la materia, 
rendendola palpabilmente ambigua e, proprio questo gesto semplice, la ridefinisce concettualmente, 
spostandola dal dominio realistico-figurativo ad un universo leggero e onirico. 
Ieratico, il volto dell’uomo che dorme (ma perché non morto ?), ha gli occhi (ovviamente) chiusi 
rivolti a noi, o forse al cielo. Sprofondato nel suo piedistallo morbido il volto si (s)definisce 
nei tratti precisi valorizzandosi proprio attraverso la monocromaticitá. 
Bianco su bianco, non può che ravvivarsi l’ombra di Kazimir Malevic1, per sfibrare subito nei codici 
poetici della Tadei, nel suo incedere libera attraverso le eredità del primo e secondo novecento 
rivitalizzando i poverismi2 di un nuovo humus. 
L’uomo e la natura, l’artificio e il vero… il discorso si incarna a metà strada, ponendosi 
immediatamente con l’urgenza di un gioco serio che fa del fare arte una pratica necessaria (prima di 
tutto per l’artista), utile ad agevolare altri discorsi altrimenti non praticabili. 
Ed è il regno della sensibilità, funambolicamente a metà strada tra il razionale e l’irrazionale, 
quello che emerge; è una narratività che sgorga, in questo caso, da una sola immagine (verrebbe da dire) 
solidamente morbida, che insiste proprio su questa ambiguità di fondo, per sollecitare e solleticare e 
i nostri pensieri. 
Estetica del sublime, con l’irriverenza tipica dei contemporanei, il suo lavoro si pone lungo 
traiettorie magiche che si nutrono di autentico stupore conducendoci lungo strade nuove. 
La materia, smaterializzata nei suoi assunti di visibilità reale, pone un problema fondamentale 
per l’artista: reinventare il mondo (un mondo) per appropriarsi di un pensiero libero di navigare 
dentro a se stesso in cui noi possiamo che lasciarci accarezzare dalle sue onde se vogliamo partecipare 
realmente al gioco. 
Il gioco, si sa, è cosa seria per i bambini; e la modalità dell’apprendimento è al contempo la necessità 
di praticarlo per crescere, senza saperlo e al contempo sapendolo. Marialuisa sa farci giocare portandoci 
nei labirinti della sua immaginazione: sta a noi decidere se lasciarci catturare.
1 Kazimir Malevic (1878 - 1935). 
Artista russo del XX secolo, pioniere dell'astrattismo geometrico e delle avanguardie russe. 
Studiò all'Accademia privata di Rerberg a Mosca. Nel 1931 fondò l’avanguardia artistica denominata 
Suprematismo.
2 Il riferimento è diretto agli artisti dell’Arte Povera e quindi, anche, all’esperienza diretta con 
Jannis Kounellis in Germania

Marco Filippa
immagine Laurence Ursulet
Nata a Tolone, in Francia, nel 1959, Laurence Ursulet studia inizialmente 
letteratura francese e filosofia all'Università Nantenne di Parigi. 
Trasferitasi a Perugia nel 1989, si iscrive all'Accademia di Belle Arti, 
dove frequenta il corso di Nudo, Composizione e Colore.
A partire dal 1991 inizia la sua attività espositiva in Italia, partecipando 
a numerose collettive e personali in tutto il territorio nazionale, e già nel 
1999 Laurence Ursulet collabora con En Plein Air nell'ambito della edizione del 
progetto Maionese.
Fina dagli esordi la sua ricerca muove a partire dal tema del limite e del confine, 
in particolare nella definizione di un linguaggio espressivo che si pone in bilico 
tra astrazione e figurazione, tra sintesi geometrica dello spazio e riferimenti alla 
decorazione corporea e architettonica della civiltà umana.
Il colore qui assume il ruolo di forza aggregante dei moti dinamici centripeti e 
centrifughi che le figure di Laurence Ursulet formano sulla tela: i toni dell'oro e 
delle terre rappresentano infatti una rivisitazione delle grandi scenografie 
naturalistiche e spiritualistiche della pittura italo-francese medievale e moderna. 
Le scelte cromatiche evocano un ritorno all'atmosfera bidimensionale e rarefatta 
delle pale d'altare con fondo in oro in voga nel tardo Trecento, e alle vedute 
paesaggistiche che dal primo Quattrocento giungono in Italia dalla tradizione 
fiamminga e trovano tanta fortuna nella scuola del Perugino, maestro del grande 
Raffaello. Da qui, Laurence Ursulet si muove per realizzare una mappatura del
proprio universo emozionale, una sorta di campionario geografico di un vissuto 
tanto soggettivo quanto universale.
Federica Tammarazio 

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