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testi di Marco Filippa,
Federica Tammarazio, |
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immagine | Andrea
Chidichimo Proprio della ricerca di Andrea Chidichimo è il percorso rigoroso che tende ad approfondire i temi dell'immagine e della pittura, nel reciproco rapporto di legittimazione. La pittura rende possibile l'immagine e l'immagine chiede alla pittura d'essere resa sensibile. Nell'indagare il legame tra pittura e immagine Andrea Chidichimo si interroga sulla necessità che l'una è per l'altra, ma in primo luogo, sperimentando una sottrazione sia dell'una che dell'altra, fino al limite estremo dell'assenza. Dipinge spesso, infatti, senza usare gli strumenti tradizionali della pittura, ma aiutandosi con processi casuali come può esserlo il fumo di una candela o i prodotti di una combustione. In ciò recupera una radice antica del dipingere, quella di un popolo primitivo o di un bambino. D'altra parte l'immagine risente di un'origine caotica e imprevedibile, presentandosi vicina all'astrazione. È possibile ancora scorgere delle figure, animali o oggetti, ma scompaiono non appena le si fissi e quel che è un dettaglio riconoscibile diviene un guizzo di colore. La tecnica utilizzata non è intesa, però, come un espediente teso a ottenere un risultato d'effetto, ma piuttosto come l'esercizio protratto, lungamente studiato, per quella che si potrebbe definire un'educazione del gesto. E dietro di esso, educazione del respiro e dello sguardo. È una pratica, per qualche verso ascetica, utile a mondare la creazione di quanto non è strettamente necessario. In questo modo, l'immagine dipinta diviene il diaframma tra vicino e lontano, tra grande e piccolo. La pittura è tensione protratta verso ciò che infine rimane inafferrabile. Verso ciò che si nasconde dietro una sola pennellata. L'opera è metafora della lontananza, di una ricerca sempre diretta a qualcosa che non è nell'opera ma cui l'opera rimanda. Lontananza definitiva e incolmabile, dal momento che nel movimento del togliere quanto non è indispensabile si finisce per imbattersi nell'unica verità che all'artista, ad ogni vero artista, è dato conoscere e sulla quale tuttavia gli è concesso di indugiare, ovvero che tra pittura e immagine è l'arte stessa a non essere necessaria. Domenico Papa |
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immagine | Ibrahima Diaw Nato a Rufisque - Dakar (Senegal) il 17/04/1972 Ibrahima Diaw è un'artista autodidatta originario di Dakar, Senegal. La sua attività artistica ha inizio nel 1992/3, e prosegue in Italia, paese in cui si trasferisce nel 1997. Il linguaggio espressivo di Diaw si ispira alla musica e alle leggende tradizionali africane, che l'artista interpreta attraverso l'uso di linee stilizzate, quasi infantili, e attraverso l'suo dei colori acrilici. Diaw alterna un approccio più realistico, influenzato dal paesaggio africano e dai cromatismi caldi e naturali, a una visione più simbolico-intimista, in cui ogni figura rimanda a un immaginario malinconico e poetico. Oltre a numerose personali, nel 2006/7 ha partecipato all'esposizione "In sede. Qui si sta bene" presso la Sede Divisione Servizi Culturali della Città di Torino. Federica Tammarazio |
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immagine | Veronica Dell'Agostino Nata a Sondrio nel 1981, Veronica Dell'Agostino si trasferisce a Milano dove si diploma in fotografia nel 2004, presso l'Istituto Europeo di Design. Nel 2007 è seconda classificata al Premio Nazionale di Fotografia Riccardo Pezza "Il racconto di un luogo", è tra i selezionati della Biennale dei giovani artisti dell'Europa e del Mediterraneo e riceve una Honorable Mention per la categoria Fine art professional agli International Photography Awards. Nel 2008 partecipa alla XII edizione della Biennale dei Giovani Artisti dell'Europa e del Mediterrano. Veronica Dell'Agostino si esprime attraverso l'uso della fotografia, spesso associata a brevi filastrocche da lei stessa scritte, ed è spesso la protagonista delle sue immagini. Trae ispirazione dalle fiabe e dal mondo infantile, contaminati da una visione macabra ma al contempo ironica. Le sue opere creano un originale connessione tra l'azione performativa, i quadri teatrali e il racconto fiabesco: la cura e l'attenzione al particolare, così come alla creazione delle ambientazioni sur-reali, danno vita ad un universo unico, sospeso, onirico, ma assolutamente credibile e logico. Federica Tammarazio |
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immagine | Carme
Garolera "Le temps reviens" La propuesta que presenta Carme Garolera me ha hecho pensar en las bellísimas cartas que Hölderlin escribía a su madre con sus reflexiones filosóficas. ¡Cuánta belleza y cuánto amor compartir con su madre de forma sencilla la complejidad de sus pensamientos! Se puede aprender más de esas cartas que de sus tratados filosóficos. Pero la riqueza de la literatura epistolar de los siglos XVIII y XIX es ya una especie de arqueología literaria, y esta percepción de un tiempo pasado es aún más profunda si analizamos las transformaciones sociales y los cambios en las formas de comunicarse que han ido introduciendo el teléfono e internet. Y sobre este fenómeno reflexiona Carme Garolera, sobre los cambios en los canales de comunicación personal en el mundo contemporáneo. La obra que presenta es un trabajo a partir de tarjetas postales que ha ido recibiendo de sus amigos a lo largo de unos veinte años. Se trata de correspondencia de las vacaciones veraniegas: vistas de paisajes de ensueño y de ciudades tan idealizadas como para recorrer miles de kilómetros para vivirlas; enviar postales es un deseo de compartir esa experiencia. Garolera pinta encima de todas las vistas, convirtiendo las postales en el soporte de su pintura, dejando visible el texto escrito y los signos del viaje: el sello y el matasellos, y utiliza medios de reproducción técnica para que sea posible ver la postal por ambos lados. Puede que las postales recuerden el trabajo de On Kawara, pero esto sólo serviría para situar la propuesta de Carme Garolera en el ámbito del arte conceptual. Recordemos que las postales de Kawara respondían a una planificación de enviar postales él mismo a sus amigos con un registro horario de alguno de sus actos cotidianos. Nada que ver con las postales de Carme Garolera, que fueron enviadas por sus amigos sin ninguna pretensión de que enviar una postal pudiera ser un acto artístico. Lo artístico empieza con la intervención de Garolera. Hoy se escribe menos y se habla más por teléfono, aunque con la aparición del blogging se vuelve a la escritura, pero con clave de acceso y emisión unidireccional, sin comunicación. Exhibicionismo, seducción, soledad, inseguridad, fetichismo... son algunas de las interioridades del blog, punto de reflexión de Carme Garolera. Y así entramos en las teorías de la información, en las relaciones emisor-mensaje-receptor. Garolera, como receptor, al pintar la imagen de la postal, decodifica parte de la información enviada por el emisor, introduciendo una nueva significación: retomar aquella correspondencia de viaje y responder ahora con su pintura a estas postales que nunca se responden porque nunca hay tiempo para dejar una dirección de destino fijo, porque llevan en sí mismas el espíritu nómada del viaje; la artista responde así a un texto que deja a la vista, un texto abierto, sin claves de acceso, una forma de comunicación también cada vez más escasa. Marga Perera traduzione di Sonia Piloto Di Castri |
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immagine | Robert
Gligorov O.G.M. Interno domestico, atmosfera calda ma impersonale (non ci sono quadri, oggetti, tracce umane...). Solo due divani e un tappeto e il corpo perfetto del tuffatore. Giusto un po' di schiuma ed è pronto a sparire dalla scena. Il macedone Robert Gligorov (ex attore, fotomodello) spesso sì auto-rappresenta trasformandosi, mutando. Come un o.g.m. della cultura, cattura lo sguardo nelle trappole della visione, escogitate magistralmente con l'apparente stessa logica dei messaggi pubblicitari. Mancano soltanto le healine, non c'è body-copy e soprattutto non c'è mistificazione nei suoi giochi visivi che stordiscono l'ordine delle cose. È evidente a tutti che non pubblicizza nulla pur avvalendosi di strategie comunicative della cartellonistica d'alta qualità (del resto spesso, se pensiamo alla T.V. come diceva qualcuno, sono i programmi ad interrompere gli spot pubblicitari e non viceversa). Il suo lavoro, anche in questo caso, si sviluppa sul margine della comunicazione contemporanea; sul filo saturo dell'immaginario collettivo colloca le sue icone provocatorie dove il senso slitta continuamente tra realtà e finzione, natura e cultura imbarcandoci nella condizione di nomadi postmoderni alla ricerca di certezze che soltanto possono formarsi adottando il caos come metodo che può aiutarci a muoverci nel caso. Cosa ci fa il tuffatore nel salotto di Elena? Non chiedetelo a me, domandatelo a voi stessi. Les jeux sont faits... e l'avventura visiva già travalica se stessa annidando germi vitali nei nostri pensieri. Marco Filippa courtesy : Galleria Pack Milano |
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immagine | Lorenzo
Griotti GIOCANDO CON LA LUCE L'aspetto ludico delle opere di Lorenzo Griotti ci introduce in un terreno fertile, dove la poesia si accompagna al design in una concezione serializzabile dell'opera d'arte: quella che Lara Vinca Masini definisce la linea del modello. L'avventura arriva dal lontano 1963 quando, con Sergio Anelli e Piero Bolla, fondo' il gruppo "Corpi Plastici" anticipando, per molti versi, la stagione in cui gli artisti preferivano chiamarsi "operatori estetici". Da quel tempo Griotti ha continuato a dispiegare la sua ricerca con intenti gioiosi. Il suo anti-espressionismo nutrito di sperimentalità (anche intorno ai materiali, penso all'uso attuale del perspex) lo ha condotto ai giochi di oggi. Il suo Villaggio, costituito da geometriche torri essenzializzate, ci riconduce ad un'identità primaria e incarna una primitività post-moderna che non ha nulla di minimalista ma deborda, invece, verso un disincantato rapporto con la luce (e la luce è colore, si sa). Torri di luce, mutevoli come le ombre, fluttuanti come nuvole, vive come esseri umani. Se penso a Lorenzo e al suo affabile e gentile modo di comunicare, ronza dolce, nelle mie orecchie, il suono di una canzone di Giovanni Lindo Ferretti e non fatico a pensare a un rapporto autentico con la natura e all'eterno dibattito tra natura e cultura ben risolto nelle sue naturali artificialità. Voglio concludere queste brevi considerazioni omaggiandolo citando Ferretti: CAMMINO VOLENTIERI CONTROMANO E CONTROVENTO TENGO LE MANI IN TESTA, GLI OCCHI BASSI SCATTO ALLA MERAVIGLIA I PASSI CHE SEGUONO I PASSI COME BAMBINO MI PIACE COSTRUIRE, STUDIARE, LAVORARE UN GIORNO DOPO L'ALTRO HO MOLTO DA IMPARARE COME BAMBINO NON COME GIOVANOTTO CHE GIOCA I GIOCHINI PASSA IL SUO TEMPO A SPASSO, SPERA NEL LOTTO MIRO AI LAMPIONI CHE S'OPPONGONO ALLA LUNA MIRO I PREPOTENTI MIRO I COGLIONI MIRO L'OMBRA CHE INTRALCIA LA FORTUNA STO SDRAIATO NEI CAMPI NELLE ORE PIU' BELLE A PANCIA IN SU' O IN GIU' A RIMIRAR LE STELLE Marco Filippa |
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immagine | Patrizia
Guerresi Sguardo aperto. Patrizia Guerrresi Maimouna traccia un gesto rapido, un segno preciso e al contempo arcaico, sui volti speculari dei due maschi di colore. In Double lamin c’è, forse, un rimando (im)preciso all’antica filosofia cinese dello Yin e Yang. Le tracce bianche sui volti traducono in orizzontale la verticale sinuosa della rappresentazione taoista e non è soltanto questa l’unica differenza sostanziale. I due volti (che secondo questa interpretazione dovrebbero alludere ai due principi opposti e complementari) sono in realtà il medesimo volto maschile e in questo la specularità è perfetta e la Guerresi è artista di immagini perfette. Utilizza la fotografia come medium, stravolgendolo pero’ dalla sua funzione di restituzione della realtà, per porre i soggetti in una dimensione altra (mistica verrebbe da dire) e ponendoci in contemplazione. Claude Lévi-Strauss1, affermava che la prima superficie che l’uomo ha sentito l’impulso di abbellire sarebbe stato il corpo, inteso come involucro della propria persona e mediatore con il mondo esterno. Queste due teste (e non dimentichiamolo che è la medesima) sono sottratte all’orizzontalità terrestre per gravitare in un non-spazio dalla tonalità lieve; poste in orizzontale si con-centrano su un vuoto sospeso che rinvia all’esterno in un processo ciclico che potrebbe essere infinito. Rammento le pagine esemplari di Roland Barthes2 sul Giappone; l’analisi semiologica del tessuto urbano contrapposto al pieno dei Centri Occidentali rivela un prezioso paradosso di Tokyo: essa possiede sì un centro, ma questo centro è vuoto. Ancora una volta l’artista crea un’immagine assoluta, di singolare bellezza. Attraverso le nouance, dai bianchi al nero, ci porta in una visione spirituale; il suo colore-non colore apre uno spiraglio e risolve le antiche diatribe all’origine dell’eresia iconoclasta ancora oggi viva, seppur in altre forme, nei precetti dei vari neo-fondamentalismi. Se lo Yin e lo Yang rappresentano nel complesso le due forze primordiali, opposte ma complementari, presenti in tutte le cose dell’Universo allora possiamo guardare l’immagine con occhi aperti e vedere l’umanità sospesa in un eterna ricerca di sé e in questo modo, a quel che si dice, l´immaginario si dispiega circolarmente, per corsi e ricorsi, intorno a un soggetto vuoto che saremo noi a colmare nella circolarità dello sguardo… un po’ come dire che tra noi e l’opera si instaurerà un dialogo aperto se sapremo liberarci da preconcetti e finalmente vedere. 1 Claude Lévi-Strauss (1908), Antropologo, Psicologo, Filosofo francese 2 Roland Barthes, L´Impero dei Segni, Einaudi, Torino, 1984 Marco Filippa |
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immagine | Rikke Hostrup L'artista Rikke Hostrup frequenta dal 1997 l'Accademia delle Belle Arti di Firenze, diplomandosi nel 2003; successivamente si iscrive al corso di Digital Design & Communication (DDK) alla IT University di Copenhagen. A partire dal 1999 inizia la sua attività espositiva in Italia e all'estero, partecipando a collettive e personali, sotto l'egida di importanti nomi della critica e della curatela internazionale. Inoltre già dal 2000 Rikke Hostrup collabora con En Plein Air, figurando tra gli artisti esposti in De Viaje del 2002, Soap Opera e One Day At A Time del 2000. Attualmente la sua ricerca espressiva si muove su differenti canali: il 3D, il web, il medium fotografico, nonché la pittura e le installazioni. Il suo multilinguismo corrisponde ad un universo creativo ricco e diversificato in cui hanno un ruolo fondamentale le relazioni tra ambiente interno ed esterno, tra l'area della spiritualità e quella della matericità, e in cui dominano l'ironia e il riadattamento di elementi e situazioni dell'esistenza. Le ultime esperienze creative di Rikke Hostrup portano il segno della sperimentazione e della condivisione: alcune opere, come www.iconfess.it (2007), mutano e si evolvono tramite l'azione partecipata di un pubblico che da fruitore si fa co-autore, altre, come la serie Sign and signification (2007), indagano sulla relazione tra il segno e la varietà di significati che ad esso vengono attribuiti dalla soggettività degli enti coinvolti nel processo di comunicazione. Federica Tammarazio |
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immagine | Daniel Kambere Tshongo Nato nel 1964 a Oicha, nella provincia congolese del Nord-Kivu, Daniel Kambere studia all''Institut pédagogique général Saint Charles Lwanga di Mulos, e successivamente all'Académie des Beaux-Arts di Kinshasa, dove si diploma in pittura nel 1986. Nel 1992, Kambere e Roger Botembe danno vita al progetto artistico Les Ateliers Botembe, con gli artisti Malambu, Matemo, Dikisongele et Freddy Tsimba. Questa modalità di approccio al linguaggio artistico si traduce nell'impegno di Kambere con l'associazione Let's protect children, al Centre de Transit et d'orientation des enfants ex-soldats et ex-militaires a Beni. Kambere vive infatti la drammatica esperienza dell'esilio, e dell'allontanamento dal suo paese d'origine, martoriato dalle guerre, trasferendosi a Kampala, in Uganda. Nel 2001 Kambere compie il suo primo viaggio in Europa, dove ritornerà per tre volte, attraversando l'Italia, la Francia, il Belgio, i Paesi Bassi e la Germania. Nell'aprile 2004, in seguito a queste esperienze, partecipa al festival francese "La Caravane des Cinémas d'Afrique". Nelle opere di Kambere il tema della pace ha un ruolo centrale, rappresentato attraverso un'iconografia fortemente legata all'immaginario territoriale dell'artista nei suoi aspetti coloristici e nella sintesi simbolica, seppure con una vena di originalità e di innovazione stilistica che rendono le sue tele un singolare incontro tra cromatismo espressionista ed astrazione. La pace, in swahili Amani, è il centro della riflessione di Kambere, che vi si accosta con minuzia, attenzione e dichiarato interesse per le problematiche dell'uomo, nella sua condizione di essere vivente. Ne è un esempio la serie dedicata agli uccelli, scomparsi, come sottolinea il critico Eddy Kabeya, dalla riserva naturale del Kivu, a causa del conflitto che ha devastato l'Est del Congo. Questo approccio critico nei confronti della situazione politica è d'altronde comune a molti degli artisti formatisi intorno all'accademia di Kinshasa, tra cui Cheri Samba, autore di numerose tele dal sapore pop, in cui le immagini sono inframmezzate da testi dai toni dichiaratamente accusatori. Federica Tammarazio |
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immagine | Pietro
Mele Sardegna, Italia Il lavoro di Pietro Mele è sempre imprevedibile. Interrogandosi sui possibili modi di guardare le realtà della sua terra, la Sardegna, Mele ricerca un punto di possibile azione dell'immagine filtrata, quel momento che nelle sue riprese sembra rivelare il "denouement", lo scioglimento dell'intreccio della trama su cui il suo occhio si posa. Utilizzando una sola inquadratura, proprio come avviene comunemente nelle videocamere di sorveglianza, Pietro Mele ritaglia e fissa l'azione presentando situazioni inaspettate dell'isola, una Sardegna legata agli stereotipi e ai forti compromessi a cui, nella necessità di una relazione con il resto del Mediterraneo, la stessa condizione di "isolano" è sottoposta. Claudio Cravero |
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immagine | Aghim
Muka courtesy Galleria Crisalis Art Net Communication Milano Aghim Muka è un narratore di favole, storie di realismo magico concretizzate in materia pittorica, scomposte narrativamente in poesie visive. L'artista albanese dà vita a una sorta di pittografia che trasforma i suoi quadri in ipertesti, costruiti per sovrapposizione di segni, forme, colori, materiali. Collage scultorei dove alla pittura si mescolano produttivamente carte, sassi, mestoli di legno, cocci, dadi, stoffe, foto, legni. L'artista crea pagine di un diario personalissimo, un romanzo in progress continuo, composto annotando pensieri, disegnando immagini vissute o sognate. Poi attacca materiali trovati, ninnoli della memoria, ricordi che non vuole sbiadiscano. Aghim buca e taglia, inserisce altri elementi; la tela perde bidimensionalità e confini, diventando superficie aperta, luogo tridimensionale di turgida materia, dove accade la vita. Alla fine la visione è complessa e densissima: ogni dettaglio è un ingresso in una dimensione da scandagliare, cellula connettiva del percorso racchiuso nell'opera. Il lavoro di Muka non va visto singolarmente ma nell'insieme, come un affresco classico, dove vengono narrati cicli. La dinamica è quella dei racconti orali, storie antiche che arrivano rotolando sulle parole trasmesse di generazione in generazione, affabulazioni fuori dal tempo, in un movimento circolare che torna sempre al centro. Sono storie di uomini e donne, con un cuore uguale in tutte le parti del mondo, in tutte le culture e i tempi : è il tempo della narrazione epica. L'umanità nasce e muore, fa l'amore e le guerre, si commuove e uccide. In mezzo scorre sempre una sottile linea di sangue, contemporaneamente materna e crudele. Femminile. Il mestruo che garantisce la fertilità, erezione e verginità, il neonato ancora sporco, il cuore che pulsa, la ferita che stilla, l'emorraggia che versa, il freddo immobile della morte. La vita è sangue, ma anche sogno e fiaba; questa è la magica alchimia di Aghim Muka. Olga Gambari. http://www.aghim-muka.com |
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immagine | Simone
Pellegrini Florilegi (In)Attuali Simone Pellegrini è artista colto e per lui il titolo non è mai occasionale; è invece ulteriore occasione per definire al meglio le sue intenzioni. Intenzioni perseguite e raggiunte nel corpus della sua opera che s’intrecciano, inevitabilmente, con le origini dell’arte e da contemporaneo qual è… in questo senso Pellegrini vuole essere “originario”, più ancora che “antico”1. Florilegi inattuali è titolo che apre le porte all’opera perché in fondo ne è parte integrante e, infatti, non la spiega, l’annuncia in un certo senso. Florilegi é parola in disuso e il vocabolario parla di antologia ma anche di libro devozionale e l’artista ci avverte subito, sono inattuali. Appartengono al non-luogo del tempo, del corpus della sua opera. Opera intrisa di ritualità, supportata da un pensiero antropologico (culturale soprattutto) con connotazioni psicologiche che non si accontenta di soluzioni affrettate, ma ricerca e rintraccia, nel linguaggio primitivo, l’essenziale impregnandosi di noir matière e d’una fisiologia della traccia che ne dice la fragranza organica, impregnata “di sudore, di sperma, di sangue”2 Carte spolvero giallastre, slabbrate (come pelle del mondo) su cui l’artista imprime le figure con pochi colori: nero, rosso, di fuoco o di sangue; tracciando figure, di-segnandole, come fissasse insieme il significato e il significante. La sua opera è nel singolo lavoro, ma è al contempo dentro tutto il suo lavoro come se l’artista non si accontentasse di una sintesi ma lavorasse ad un corpus; come se la sua fosse una Encyclopédie dei valori originari dell’uomo e nelle sue pagine, attraverso i suoi segni, le sue impronte, riaffiorasse a galla l’escatologico e lo spirituale scovandolo proprio negli inizi, nei gesti primari intrisi di violenza e creazione. Le sue carte sono intrise di sostanze pre-cromatiche, accettano un grado zero3 del linguaggio pittorico, interessate come sono ad una narrazione non lineare, addizionale per certi versi, guidata da un’azione (quasi) sciamanica e del resto, rispondendo ad Ivan Quaroni in merito al pubblico della sua arte, Pellegrini risponde: In principio si rivolge a me. A me fa appello. Poi a chi ama la severità dell'ordito e disconosce il belletto. Ho chiesto a Simone di inviarci delle immagini del suo volto per il catalogo e ho ricevuto una piccola collezione di fotografie che lo colgono al lavoro, rigorosamente in b/n. Una serie di scatti nel suo studio che rivela molto della sua opera. Un’officina delle immagini in cui il colto operaio Pellegrini si muove, col suo corpo scolpito, tra i cumuli di carte, gli incipit affissi al muro come post-it antichi in un evidente processo di crescita dell’opera. Non sono abituato a pensare l’opera d’arte come necessariamente correlata alla vita dell’artista ma, nel suo fare, c’è processualità operativa che è la medesima che possiamo cogliere nei risultati. L’opera nasce stesa a terra, ma i processi generatori sono altrove, nei monotipi che realizza e stampa, nelle delicate tarsie quasi monocromatiche… nasce a terra e poi si eleva a parete come nel processo evolutivo darwiniano: l’homo erectus è la tappa precedente all’homo sapiens cosí il fare di Pellegrini richiede attenzione e sensibilità per intercettare l’emozione che può scaturire dai suoi lavori entrando nelle nostre esistenze con la sua (in)attualità. 1 KRN di Marco Meneguzzo, Galleria delle Battaglie", Brescia, 2005 2 Per Simone Pellegrini di Flaminio Gualdoni (Cardelli & Fontana artecontemporanea) 3 Roland Barthes – Il grado zero della scrittura – Einaudi Marco Filippa |
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immagine | Yael
Plat Nel suo viaggio attorno alla dimensione domestica, dopo le sculture è arrivato il video. Per l'artista israeliana Yael Plat la casa è luogo mentale e architettonico, insieme rifugio e gabbia, uno spazio a parte dove il sé, consapevole o inconsapevole, va in scena. La casa è la forma su cui ha ragionato, ridefinito, modellato negli ultimi due anni. Nelle case ci si specchia, quasi fossero un ritratto dell'anima, ci si chiude per manifestarsi come fuori non si può. Tante case di dimensioni e materiali diversi, appese a parete o poste su piedistalli in legno, garza, cemento, paraffina, cartoni da imballo, plexiglass. Sono case dipinte, ripiene di cotone, legate con spaghi e corde, luminose, ricamate, chiuse da griglie. Diventano scrigni di parole scritte, fotografie, lampade accese nel buio, lume per ricordi che non devono sbiadire. Così è la protagonista del suo recente video "Behind close doors", una ragazza che vive il suo dramma tutto in una stanza, una serie di ore dove presente e passato si intrecciano, reale e sognato creano un flusso visivo narrato per immagini, composizioni come quadri. All'inizio è la violenza che si scatena, originata dalla sua disperazione esistenziale. Un'azione che si riversa sulla stanza come fosse un organismo vivente, travolgendola. Litiga con muri e oggetti, beve, spacca. Ogni flash back, ogni tuffo nella memoria, ci fa uscire fuori, nel mondo vissuto all'esterno, come quando il profilo di un quartiere si riflette sul volto della giovane. La furia lascia il posto alle lacrime, una catarsi liberatrice visualizzata con gocce e flussi di una cascata. Poi, finalmente, arriva la calma, la rabbia si placa, il respiro si regolarizza, quello della ragazza e della stanza con lei. Sulla parete la protagonista scrive con la cenere la frase "Il dolore è il padre della creazione". Quello che rimane, la traccia di una crescita appena avvenuta. Olga Gambari |
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immagine | Vladimir
Rajtman Russia - Germania Le immagini fotografiche di Rajtman sembrano incontri che sfumano, relazioni che stanno per avere luogo o che devono ancor avvenire. In bilico tra due Paesi, tra due identità in transito, la Russia e la Germania, Vladimir Rajtman restituisce segni dei vissuti con i quali si confronta, tracce dei luoghi esplorati e da lui compresi, frammenti di vite altrui nel pieno dell’attività lavorativa o colti nell’umana e passiva rassegnazione della fine. Nell’ambito di “I Linguaggi del Mediterraneo – CMYK”, l’artista presenta “V avtobuse” (In autobus) e “Dedy” (Nonnetti), due momenti della quotidianità di una Russia che, nell’assenza di colore delle immagini, riportano al personale archivio di ricordi in bianco e nero che ognuno porta con sé. Sono immagini eloquenti che restituiscono tutta la speranza di una umanità apparentemente negletta nella ricerca e riappropriazione del colore, della vita nella sua voglia di affermazione, nel suo dinamismo e forza positiva. Gli scatti si chiudono spesso su dei volti che, con fierezza, assumono un sorriso di posa, visi intensi e orgogliosi di restituire tutto il loro protagonismo all’obiettivo di Rajtman. In altre immagini, invece, è l’artista a cogliere velocemente i gesti e quei precisi dettagli espressivi che delle persone fotografate sembrano confermare la loro appartenenza ad un’etnia, ad una comunità. Donne colte di schiena in pullman, uomini in un mercato d’antiquariato in pieno inverno o, più semplicemente, i saluti di due amici, sono solo alcune delle immagini di una più complessa analisi antropologica delle realtà vissute dall’artista, uno studio che non si esaurisce nel documento, ma che lavora sulla memoria, sullo stupore, sulle emozioni sospese nel loro essere in posa o catturate furtivamente. courtesy Associazione Russkij Mir di Torino e Cantiere 48 Claudio Cravero |
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immagine | Giorgio
Ramella Blu intenso. Blu del mare, blu del cielo. Blu dell'anima. Un volto in primo piano invade il quadro, sul fondo di una lavagna grattata da segni primordiali. Tracce di un'analisi antropologica o semplicemente, com'è giusto che sia, un discorso tutto interno alla pittura. Un volto ideale (a metà strada tra un geroglifico e un ricordo matissiano, "sporcato" dal tempo) che non è femminile e neppure maschile ma proprio per questo è semplicemente, umanamente divino. Giorgio Ramella, nel suo ormai lungo e consolidato percorso di ricerca artistica, osserva un "Oriente visto con sguardo da europeo, da mediterraneo"1. Da pittore, qual è sempre stato, narra con la lingua del colore e dei segni educandoli ai suoi racconti visivi esteticamente estatici. Testa blu, fin dal titolo, non annuncia altro che se stessa, ma non si tratta di una tautologia bensì di un'assùnto primario che fa di questo dipinto una specie di frame ideale per un film che non esiste se non nel suo immaginario e proseguirà, molto probabilmente, in altri quadri. La ricerca cromatica, di rara eleganza, è il suo tratto poetico fondamentale. Un blu intenso che arriva dal mare e dal cielo ma in realtà appartiene all'anima, la sua certo ma anche la nostra. Sappiamo che ànemos significa "vento" e, senza volermi addentrare in speculazioni filosofiche, appare chiaro che possiamo parlare di anima del mondo (anima mundi la definivano i latini) che si sostanzia, in questo caso, di colore e si accampa su un nero sfondo sordo-opaco. In quest'ottica il quadro appare sempre più chiaro. Ramella offre al nostro sguardo una narrazione visiva scegliendo una modalità semplice, apparentemente priva di un impianto prospettico. C'è lo sfondo, la figura principale risolta cromaticamente e poi ci siamo noi che siamo fuori del quadro ma anche parte integrante dell'opera, il terzo assente che completa il discorso. Allora, se l'analisi è corretta, non resta altro che partecipare al gioco dell'arte, lasciando scivolare la mente altrove, verso noi stessi in fondo. Marco Filippa |
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immagine | Marialuisa
Tadei Chi dorme piglia pesci Nell’anno del colore abbiamo chiesto a Marialuisa Tadei una scultura intensamente bianca, un’opera del 2003. Il dormiente, è un’opera scultorea, che gioca sottilmente con la materia, rendendola palpabilmente ambigua e, proprio questo gesto semplice, la ridefinisce concettualmente, spostandola dal dominio realistico-figurativo ad un universo leggero e onirico. Ieratico, il volto dell’uomo che dorme (ma perché non morto ?), ha gli occhi (ovviamente) chiusi rivolti a noi, o forse al cielo. Sprofondato nel suo piedistallo morbido il volto si (s)definisce nei tratti precisi valorizzandosi proprio attraverso la monocromaticitá. Bianco su bianco, non può che ravvivarsi l’ombra di Kazimir Malevic1, per sfibrare subito nei codici poetici della Tadei, nel suo incedere libera attraverso le eredità del primo e secondo novecento rivitalizzando i poverismi2 di un nuovo humus. L’uomo e la natura, l’artificio e il vero… il discorso si incarna a metà strada, ponendosi immediatamente con l’urgenza di un gioco serio che fa del fare arte una pratica necessaria (prima di tutto per l’artista), utile ad agevolare altri discorsi altrimenti non praticabili. Ed è il regno della sensibilità, funambolicamente a metà strada tra il razionale e l’irrazionale, quello che emerge; è una narratività che sgorga, in questo caso, da una sola immagine (verrebbe da dire) solidamente morbida, che insiste proprio su questa ambiguità di fondo, per sollecitare e solleticare e i nostri pensieri. Estetica del sublime, con l’irriverenza tipica dei contemporanei, il suo lavoro si pone lungo traiettorie magiche che si nutrono di autentico stupore conducendoci lungo strade nuove. La materia, smaterializzata nei suoi assunti di visibilità reale, pone un problema fondamentale per l’artista: reinventare il mondo (un mondo) per appropriarsi di un pensiero libero di navigare dentro a se stesso in cui noi possiamo che lasciarci accarezzare dalle sue onde se vogliamo partecipare realmente al gioco. Il gioco, si sa, è cosa seria per i bambini; e la modalità dell’apprendimento è al contempo la necessità di praticarlo per crescere, senza saperlo e al contempo sapendolo. Marialuisa sa farci giocare portandoci nei labirinti della sua immaginazione: sta a noi decidere se lasciarci catturare. 1 Kazimir Malevic (1878 - 1935). Artista russo del XX secolo, pioniere dell'astrattismo geometrico e delle avanguardie russe. Studiò all'Accademia privata di Rerberg a Mosca. Nel 1931 fondò l’avanguardia artistica denominata Suprematismo. 2 Il riferimento è diretto agli artisti dell’Arte Povera e quindi, anche, all’esperienza diretta con Jannis Kounellis in Germania Marco Filippa |
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immagine | Laurence Ursulet Nata a Tolone, in Francia, nel 1959, Laurence Ursulet studia inizialmente letteratura francese e filosofia all'Università Nantenne di Parigi. Trasferitasi a Perugia nel 1989, si iscrive all'Accademia di Belle Arti, dove frequenta il corso di Nudo, Composizione e Colore. A partire dal 1991 inizia la sua attività espositiva in Italia, partecipando a numerose collettive e personali in tutto il territorio nazionale, e già nel 1999 Laurence Ursulet collabora con En Plein Air nell'ambito della edizione del progetto Maionese. Fina dagli esordi la sua ricerca muove a partire dal tema del limite e del confine, in particolare nella definizione di un linguaggio espressivo che si pone in bilico tra astrazione e figurazione, tra sintesi geometrica dello spazio e riferimenti alla decorazione corporea e architettonica della civiltà umana. Il colore qui assume il ruolo di forza aggregante dei moti dinamici centripeti e centrifughi che le figure di Laurence Ursulet formano sulla tela: i toni dell'oro e delle terre rappresentano infatti una rivisitazione delle grandi scenografie naturalistiche e spiritualistiche della pittura italo-francese medievale e moderna. Le scelte cromatiche evocano un ritorno all'atmosfera bidimensionale e rarefatta delle pale d'altare con fondo in oro in voga nel tardo Trecento, e alle vedute paesaggistiche che dal primo Quattrocento giungono in Italia dalla tradizione fiamminga e trovano tanta fortuna nella scuola del Perugino, maestro del grande Raffaello. Da qui, Laurence Ursulet si muove per realizzare una mappatura del proprio universo emozionale, una sorta di campionario geografico di un vissuto tanto soggettivo quanto universale. Federica Tammarazio |
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